Ancora più sorrisi, stabili le canzoni, cresce la tv. Si potrebbe riassumere così quella che il suo direttore Umberto Brindani definisce in questa intervista la "ripartenza" che coinvolgerà il settimanale Tv Sorrisi & Canzoni a partire dal prossimo settembre.
Perché cescerà lo spazio dedicato alle celebrities, rimarra invariato l'interesse per la musica, ma soprattutto si vorrebbe puntare su un diverso modo di proporre i programmi.
Con l'obiettivo dichiarato di diventare un organo di informazione per tutta la famiglia italiana. L'ex direttore del settimanale Chi, nonché ex vicedirettore di Panorama, parla anche della necessità che i broadcaster italiani - com'è avvenuto all'estero - si siedano intorno a un tavolo per mettere a punto regole condivise a difesa sia di chi fa la televisione sia di chi la consuma. E soprattutto una priorità: ridimensionare l'ordalia quotidiana in cui si è trasformata la pubblicazione dei dati Auditel. Insomma, ci vuole una tregua.
Lei dirige "Tv sorrisi e canzoni" dall'ottobre scorso. Quindi, esattamente da nove mesi, il tempo di una gestazione. So infatti che sta per nascere una versione rinnovata. Che giornale sarà?
«Bisogna partire dalla storia di Sorrisi, che è un giornale che sta per compiere i suoi primi 55 anni. E il primo giornale italiano e non, come semplifica erroneamente qualcuno, il primo settimanale. Lo dico in tutta tranquillità: essendo qui da nove mesi, non ho nulla da rivendicare. Una testata che oggi vanta circa 150mln di copie vendute e 5mln di lettori, ma che negli ultimi anni ha visto erodersi lentamente la sua performance in edicola. Per fortuna l'emorragia sta rallentando: in questo momento siamo intomo a -2,5% in edicola».
L'ultimo dato Ads di marzo vi dà a -6,4%.
«Rispetto al -10% degli anni scorsi, la situazione è migliorata e, come ho detto, stiamo ulteriormente recuperando. Peraltro, il fatto che perdano copie praticamente tutti gli altri giornali non ci consola: l'ultima cosa che vorremmo fare è gesrire il declino di una testata, perché Sorrisi ha invece ancora molto da dire e da fare. Questo è il presupposto che ha guidato i miei primi nove mesi qui, durante i quali sono già cambiate diverse cose. Nella prima parte, quella dedicata - come dicono gli americani - alle features, abbiamo operato già grossi interventi.
Da settembre faremo un salto ancora più deciso in modo tale che anche attraverso una rivisitazione grafica, l'aggiunta di nuovi spazi, rubriche e interventi, Sorrisi diventa più ricco e nuovo. Renderemo inoltre più chiara e agevole la parte di listings, cioè la guida ai programmi. Ecco perché non mi piace definire l'operazione un semplice restyling: non stiamo cambiando solo il vestito, ma il corpo stesso del giornale.
Prima ne miglioreremo e irrobustiremo il fisico, poi gli faremo indossare l'abito adeguato. Non è neanche un rilancio. Piuttosto, malgrado la mia incrollabile fede interista, prenderei a prestito un termine caro ad Arrigo Sacchi ai tempi del Milan, la definirei una "ripartenza"».
Che lettura date dell'emorragia di copie subita dai televisivi? Certo, il loro numero è cresciuto, ma cos'è cambiato da quando il "Sorrisi" diretto da Gigi Vesigna arrivava a vendere fino a 3mln di copie?
«In effetti tra la fine del 2004 e l'inizio del 2005 è scoppiata all'interno del mercato dei televisivi una guerra guerreggiata, soprattutto con l'ingresso delle testate di Cairo e del gmppo L'Espresso, quest'ultimo presto fallito. Oggi la vendita complessiva dei televisivi è esattamente uguale a quella di tre anni fa: il bacino è rimasto uguale a quello di 20 anni fa, quando c'erano solo Sorrisi e il RadioCorriere. Non si è si verificato il boom dei televisivi paragonabile a quanto successo in Francia, dove il settore vende intorno a 11 min di copie, piuttosto che in Germania, Paese in cui si pubblicano oltre 40 testate dedicate alla televisione. Rispetto all'estero, il nostro è un mercato sottodimensionato, perciò sono portato a pensare che in Italia ci sia spazio per un giornale di nuova generazione, che sappia pescare nuovi lettori e che non si accontenti di tenersi attaccati a qualsiasi costo quelli che ha già».
I vostri concorrenti hanno puntato sulla leva del prezzo e sul gossip.
«Sicuramente l'operazione sul prezzo, che qualcuno ha definito la "cinesizzazione" del mercato, ha giocato un suo ruolo. Senza offesa, spero, per Mayer e Cairo, si tratta di prodotti a basso prezzo e inevitabilmente di bassa qualità. E poi è una leva difficile da usare per chi è già un player storico, perché nel momento in cui vendi un prodotto come Sorrisi a 1,30 euro la percezione del suo valore rimane alta. Se scendi a 1 euro, forse vendi di più, ma perdi in credibilità presso il tuo pubblico. Invece, il mix editoriale più puntato sulle celebrities, sul gossip età, è una chiave che ha mostrato di funzionare negli ultimi anni. Essendo stato direttore di Chi, posso dire che non tanto il gossip, quanto la vita privata delle celebrità proposta in un certo modo, è un genere che piace. D'altro canto, il modello della guida televisiva come tale ha mostrato un po' la corda. Mentre Sorrisi si configura sempre più come un giornale per la famiglia».
Ormai da mesi avete spostato in questo senso la linea del giornale, che sarà potenziata nel nascente "Sonisi". Ma visto che quello della televisione è - soprattutto in questa fase - un settore in cui il gossip si mescola spesso all'informazione (vedi Vallettopoli e scandali vari), non sarà difficile per voi riuscire a mantenere un equilibrio?
«No, anzi sarà facilissimo, perché il gossip è una cosa, il trattamento dei personaggi come persone un'altra. Sorrisi non ha mai fatto - e non farà mai - gossip. Ovvero, non pubblicherà mai il chiacchiericcio, la maldicenza, la notizia maliziosa e non verificata. Piuttosto vogliamo raccontare il privato delle celebrities, proporre la persona che c'è dietro la maschera di personaggio pubblico. Si tratta di allargare il range degli argomenti e la missione stessa del giornale, non limitandosi più a parlare solo di programmi».
In una parola, puntate ad ampliare il vostro pubblico di riferimento.
«Sorrisi e una testata molto particolare: rimane nelle case per almeno 10 giorni, spesso è l'unico giornale a essere acquistato in famiglia, viene letto da tutti i componenti, e ha un core target collocato tra i 25 e 44 anni. Ci siamo chiesti allora, perché sprecare questa enorme potenzialità limitandoci a essere una guida tv? E i primi risultati ci danno ragione. Ma occorre cambiare anche il nostro modo di fare informazione televisiva. Per esempio, la direttrice della rivista francese Telestar, uno dei maggiori giornali televisivi in Europa, mi ha spiegato recentemente che per le loro copertine non puntano mai sulle anticipazioni dei programmi. Il che è l'esatto contrario di quanto facciamo in Italia: noi giornalisti vogliamo sempre essere i primi a dire qualcosa su un programma, ma poi, quando la sua messa in onda si avvicina, cioè quando sarebbe il momento più giusto per raccontare ai lettori lo spettacolo che vedrà in televisione, ci blocchiamo perché è un argomento che abbiamo già trattato.
Così facendo, però, ci esponiamo a due rischi. Il primo è di fare una copertina o un servizio su una cosa che piomba nei salotti degli italiani senza che sappiano di cosa stai parlando. Il secondo è che magari si racconta con enfasi un programma che al pubblico poi non piacerà. A noi è capitato di recente con Colpo di genio di Simona Ventura e con Apocalypse Show di Gianfranco Funari. I francesi lasciano prima partire il programma, lo studiano e poi, se è il caso, gli danno la copertina. La trovo una grande lezione di umiltà. Puntare esclusivamente sulle anteprime può essere un modo per guadagnarsi stellette e galloni agli occhi della comunità degli esperti di comunicazione, ma non a quelli dei lettori».
Si tratta di una scelta soprattutto autoreferenziale
«Assolutamente. Non è detto che le copertine siano promozionali per il programma, anzi, i due esempi fatti prima sono la dimostrazione del contrario. Occorre stare più a ridosso delle cose che interessano ai lettori. Se ho trascurato un programma sul quale mi accorgo invece che il pubblico vorrebbe maggiori informazioni, devo avere l'umiltà di tornare sui miei passi. La copertina che ha venduto di più durante la mia gestione è stata quella dedicata a Dr. House, uscita a conclusione della serie. Evidentemente era arrivata al momento giusto».
Sono stati presentati i palinsesti -Rai e Mediaset, e come ogni anno si ha l'impressione che ci siano poche novità: stessi programmi, stesse facce. D'altra parte, notoriamente, gli inserzionisti pubblicitari hanno poca voglia di rischiare. Ma a che punto la ragionevole cautela di un direttore di rete, si trasforma in colpevole assenza di coraggio, e perciò in incompetenza?
«Coi direttori di rete, sia .Rai che Mediaset, ho aperto da tempo due contenziosi, e mi dispiacerebbe aggiungerne un terzo.... Mi riferisco in particolare alla questione riguardante l'inizio del prime time e quindi la certezza dell'ora di inizio dei programmi, e poi alla controprogrammazione. In entrambi i casi il giornale si è fatto portavoce dei malesseri non solo dei nostri lettori, ma di tutta la platea televisiva, oltre a difendere la puntualità della nostra informazione.
Troppo spesso siamo costretti a intervenire per correggere le pagine in extremis, oppure a inserire note per scusarci con i lettori del fatto che la programmazione che riportiamo è stata cambiata all'ultimo momento. All'estero ci sono leggi precise che impediscono tali comportamenti, oppure ci si affida ad accordi vincolanti fra i broadcaster. In Italia non ci sfiora neanche un'idea simile. A questo vogliamo aggiungere pure la mancanza di coraggio nello sperimentare? Forse sarebbe il caso, ma non me la sento di incolpare chi fa tv per l'assenza di innovazione. Soprattutto perché di solito, quando la si fa, il pubblico è il primo a non gradire. E non si può certo chiedere a una tv commerciale di mettere a repentaglio gli ascolti.
Potrebbe farla in misura maggiore il servizio pubblico, ma ormai agisce di fatto come un broadcaster commerciale. A me basterebbe, tanto per cominciare, che ? reti ammiraglie e non - mostrassero maggiore rispetto per i telespettatori. Che non facessero sparire i programmi da una sera all'altra solo perché gli ascolti non hanno soddisfatto le attese».
Cos'è cambiato da quando Rai e Mediaset hanno dichiarato che avrebbero tenuto sotto controllo l'ora di inizio del prime time?
«Si sono comportati bene fino alla fine della stagione. Con l'estate, hanno cominciato a lasciarsi un po' andare».
E l'inizio della seconda serata?
«Quello è un problema di difficile soluzione. Superabile solo adeguandosi al modello Usa, dove la prima serata dura solo un'ora: da noi è di almeno due. Ma per fare qualcosa occorrerebbe cambiare totalmente le abitudini degli spettatori. In alternativa, si potrebbe trasformare l'access prime time in prime time. Ipotesi che, mi risulta, sia attualmente allo studio».
La deriva della durata dei programmi è dovuta a mancanza di idee oppure, più prosaicamente, così facendo si cerca solo di risparmiare sui costi di produzione?
«Non saprei. Certo, c'è un maggior controllo dei costi, ma mi viene da pensare che la priorità numero uno siano sempre gli ascolti. Perciò il prolungamento di un programma dipende soprattutto dal voler ottenere una media di share alta anche a scapito dell'ascolto complessivo, che inevitabilmente cala nel corso della serata televisiva».
Si diceva dello sfruttamento intensivo di programmi e conduttori. Ma non si potrebbe fare qualcosa per promuovere le novità?
Magari introdurre una "quota young" nei programmi: l'obbligo di affiancare a ogni professionista affermato un volto giovane, ma di talento, in modo tale che si faccia le ossa e familiarizzi con la telecamera. Una volta c'era la tv dei ragazzi in cui sperimentare giovani volti, adesso - eccetto Disney Channel e Mtv - nessuno fa scouting. Almeno non in maniera disinteressata e sistematica... Siamo sempre lì, occorrono certezze e tempo.
Perché di solito quando vengono sperimentati nuovi conduttori e formati, se il programma non va subito bene, dopo due puntate viene chiuso o la conduzione affidata a un nome più noto. E anche vero però che, in quest'ultimo caso, si riesce quasi sempre a risollevarne le sorti. Pensi a nomi come Gerry Scotti, Mike Bongiorno, Pippo Baudo, Maria De Filippi, Antonio Ricci, Carlo Conti e diversi altri, è difficile per i nuovi talenti riuscire a farsi largo tra questi professionisti».
Ma alcuni fanno troppo: conducono più programmi nella stessa stagione, magari recitano nelle fiction, fanno gli ospiti e si cimentano come testimonial negli spot.
«E vero, però se un produttore o un direttore di rete è costretto a ragionare non dico sul lungo periodo, ma sull'oggi, ed è costantemente pressato dall'incubo dell'ordalia quotidiana in cui è stata trasformata l'Auditel, non gli si può chiedere di non affidarsi ai nomi che gli danno maggiori certezze. Ci vorrebbe una sorta di pax televisiva: occorrerebbe mettersi tutti attorno a un tavolo e stabilire alcune regole generali che non siano penalizzanti per le reti e, dall'altra parte, che possano garantire alcune certezze a chi guarda la tv. Temo però che ci troviamo lontani anni luce dall'idea di una tregua».
L'ultima stagione ha sancito alcuni importanti avvenimenti editoriali e di business. Infatti, ha cominciato a farsi sentire una crisi, vera o presunta dei reality; alcuni personaggi macina ascolti, come Simona Ventura e Gianfranco Funari, hanno perso un po' di smalto. Endemol è passata nell'orbita di Mediaset; Magnolia in quella di DeAgostini. Tutto questo pensa che influenzerà in qualche modo le strategie relative alla prossima stagione?
«Per la verità, non riesco a vedere una connessione diretta tra le operazioni finanziare che ci sono state e gli interessi dei telespettatori italiani. Anche se è cambiata la proprietà di Endemol e Magnolia, credo che nella sostanza la loro attività rimarrà invariata».
Certo, ma qualcuno ha detto che ciò potrebbe produrre uno scatto d'orgoglio della Rai: che le scelte dei programmi saranno più prudenti...
«Quello relativo alla produzione, interna o esterna che sia, è un tema che non mi appassiona più di tanto. A me - come al pubblico - importa che si realizzino buoni programmi, non se sono realizzati da un produttore indipendente o meno. I reality sono entrati in crisi, non perché non piacciono ma perché erano diventati troppi, e perché ci si ostina a proporre un modello - quello del programma in studio, con tanto di conduttore, ospiti litiganti e pubblico plaudente - che ha ormai stufato».
Si sta profilando un calo negli ascolti delle generaliste (-5% nei primi sei mesi) e una flessione del tempo medio che la gente passa davanti alla tv; qualcuno lamenta che i telespettatori sono stati ridotti a meri consumatori e che comunque il pubblico sta diventando sempre più selettivo, complice la crescita di Sky. Si tratta di elementi riscontrabili nelle lettere che i vostri lettori inviano al giornale e al forum online di "Sorrisi"?
«E tutto vero, sta cambiando l'uso stesso che si fa dell'apparecchio televisivo. Sky certamente cresce, ed è una realtà positiva, ma a considerare bene i dati Auditel, si nota come oltre il 50% dei suoi abbonati usi il decoder per guardare i programmi delle generaliste e come uno dei canali satellitari più visti come Fox faccia veramente molto meno ascolti di quanto ci si aspetterebbe. La verità è che, malgrado tutto, l'85% della platea televisiva preferisce le generaliste. E ci vorranno anni prima che la tv mobile piuttosto che quella via internet, o il satellite, ne scalzino il primato».
Linda Parrinello
per "Tivù"
edizione del 01/08/07