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I baroni fanno male alla Rai: il parere di Stefano Zecchi

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Fonte: ilgiornale.it

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Televisione

C?è una questione culturale che non è stata sollevata nelle discussioni seguite alla proposta di riforma della Rai presentata dal ministro delle Comunicazioni Paolo Gentiloni. La premessa è la seguente: la comunicazione di massa televisiva è lo strumento di informazione più potente che ci viene messo a disposizione dalle moderne tecnologie. La comunicazione di massa televisiva è anche lo strumento culturale più efficace nel formare e orientare l?opinione pubblica.

Questa funzione decisiva della televisione nella società contemporanea (che ha spiazzato organismi tradizionalmente preposti a quel compito come scuola, università, giornali) è tanto delicata culturalmente, quanto fondamentale per la democrazia. I governi, pur nei loro diversi colori, hanno sempre stabilito che la Rai dovesse rimanere sotto il controllo pubblico, più esattamente del Parlamento, seguendo un principio molto semplice: il Parlamento rappresenta le diverse posizioni politiche e culturali dell?Italia, dunque nel Parlamento deve risiedere il controllo dell?emittente pubblica televisiva. Ragionamento efficace e condivisibile: l?alternativa vera è il mercato, cioè la Rai come un?impresa privata che si affida alla regola della domanda e dell?offerta. Dico subito che, come accade in Europa, a mio parere è bene che la Rai rimanga un servizio pubblico.

Rai servizio pubblico significa che il controllo è nel Parlamento e, quindi, è nei partiti. Ora il ministro Gentiloni propone di rendere la Rai meno schiava dei partiti: nobile proposito condivisibile. Come realizzarlo? Al di là della riorganizzazione della Rai in tre società distinte, che non sto qui né a discutere né a riassumere, è chiaro che il nobile proposito del ministro deve modificare l?attuale fondamento originario su cui poggia il concetto stesso di servizio pubblico, cioè il Parlamento. E qui casca l?asino.

L?idea forte di Gentiloni è una Fondazione in sostituzione del Parlamento e dei partiti, che sia da filtro tra chi sceglie gli amministratori e la fonte della scelta (governo e Parlamento). Dunque, se oggi le azioni della Rai sono per il 99,5 per cento affidate al ministero dell?Economia, il maggior azionista Rai diverrebbe la Fondazione. Si prevede che siano gli ordini professionali, le università a esprimere le loro candidature per il consiglio di amministrazione della Fondazione. Proprio quest?ipotesi, ritengo, darebbe meno garanzie democratiche della lottizzazione politica.
Gli ordini professionali possono davvero esprimere quelle élite culturali che farebbero compiere il salto di qualità alla gestione pubblica della Rai? No, il motivo è sotto gli occhi di tutti, anche se si finge di non vedere. Dal ?68 in poi c?è stata da parte della sinistra una sistematica politicizzazione delle professioni: gli ordini dei docenti universitari, dei magistrati, dei giornalisti sono diventati vere e proprie corporazioni che non si dividono mai al loro interno, che neppure si sognano di portare avanti, sostenere punti di vista diversi. Le élite presenti negli ordini professionali possono offrire cultura se realmente difendono il diritto di confrontarsi tra loro su posizioni politiche in conflitto: diversamente costituiscono corporazioni, potenti politicamente, ma inconsistenti culturalmente.

Nella nostra società gli ordini sono politicizzati e le élite chiuse in corporazioni. Come è possibile attingere da questa fonte energie culturali che possano offrire qualità alla Fondazione di gestione della Rai, garantendone la democraticità? L?idea di Gentiloni potrebbe funzionare se queste élite non fossero né bloccate in corporazioni né politicizzate negli ordini professionali. Però non è questa la realtà. Di conseguenza molto più sicuro dal punto di vista della tutela del diritto democratico di rappresentare tutto il Paese è ancora una Rai affidata al Parlamento perché, con il suo progetto, il ministro Gentiloni finirebbe per chiudere l?emittente pubblica in una corazza corporativa che non garantirebbe un bel niente: né qualità, né democrazia.

Stefano Zecchi
per "Il Giornale"

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