Nella transizione al digitale, l'Italia ha adottato, a partire dalla Sardegna, un modello all'avanguardia in Europa. Non mancano tuttavia, riserve e perplessità tra gli operatori, in particolare sull'estensibilità di tale modello ad altre regioni.
Tutto comincia dalla Conferenza di Ginevra del giugno 2006. Da allora, l'Italia ha saputo che non avrebbe potuto continuare ad occupare tutti i 55 canali utilizzati dalle sue tv. E che il Piano per le frequenze digitali dell'Autorità per le comunicazioni era da aggiornare. Il rischio era una riduzione drastica delle reti, proprio mentre si teorizzava la fine della "scarsità dello spettro" grazie al digitale.
La riduzione del numero dei canali utilizzati c'è stata ma prima, a Ginevra, gli italiani presenti, in ordine sparso, hanno tamponato la catastrofe.Poi, grazie alla scelta di realizzare reti in Iso-frequenza (SFN) - nelle quali ciascun operatore trasmette sempre sulla stessa frequenza, anziché dividerla con altri soggetti -si sono trovate, in Sardegna, frequenze per tutti. Questo, grazie al lavoro di istituzioni e operatori attorno a Italia Digitale, la cabina di regia istituita da Paolo Gentiloni, e al contributo decisivo della Fondazione Bordoni e del suo direttore generale, Antonio Sassano. Le trattative in corso con la Francia e gli altri paesi confinanti non dovrebbero intaccare tale "miracolo italiano", che ha moltiplicato non i pani e i pesci ma le risorse disponibili.
L'effetto più importante per il mercato televisivo? Tutte le emittenti avranno parità di copertura della popolazione. Nell'analogico, oggi, solo le sei reti di Rai e Mediaset coprono più del 90% della popolazione.
Restano diversi problemi aperti, come «quelli della concentrazione della pubblicità e dell'accesso ai programmi» commenta Piero De Chiara di Telecom Italia Media. Vi è, poi, la questione dei nuovi servizi di Tic.
Secondo una decisione presa nel novembre 2007 a livello mondiale, su pressione di operatori mobili, costruttori e paesi meno sviluppati, servizi come l'Umts e il Wi-Max potranno accedere a una determinata banda di frequenze televisive (61-69 UHF), con vantaggi economici nella costruzione della rete (richiedono meno trasmettitori). In Italia non si libererà quella banda ma frequenze sparse, con pone problemi per i produttori di ricevitori.
Terzo: in Sardegna si è arrivati all'accordo al tavolo operatori-Ministero-Agcom sulle frequenze da utilizzare ma la transizione avverrà, non "tutta in una notte", senza separare la proprietà delle reti dagli editori televisivi. Niente operatore unico come la francese TDF, insomma. Vuol dire far operare in piena sintonia una ventina di imprese tra grandi e piccole nell'accendere gli impianti sulle frequenze i cui diritti d'uso saranno rilasciati dal Ministero (anziché dall'Autorità, unico caso in Europa). Se un'emittente si tira indietro, si ferma tutto.
Le tv locali, infine: chiedono contributi per la conversione, non accettano di abbandonare le frequenze e la sintonizzazione consolidate per diventare semplici editori, temono che un blackout in una Regione, marginale per le tv nazionali, sarebbe esiziale per loro. Rifiutano, soprattutto, l'idea di consorziarsi per dividersi una rete (in Sicilia vi sono 88 tv locali) quando Rai e Mediaset ne hanno sei ciascuna.
Marco Mele
per "Il Sole 24 Ore"
(25/04/08)