Da venerdì 22 novembre, alle 22.30 su Sky Sport Uno, in streaming su NOW e on demand, appuntamento con un nuovo capitolo della Produzione Originale Sky Sport firmata da Giorgio Porrà, che torna a emozionare con “L’Uomo della Domenica” dedicato al compianto campione azzurro Totò Schillaci e ai suoi “Occhi di ragazzo”. Giorgio Porrà racconta Totò Schillaci, l'eroe di Italia '90, svelandone la dimensione più intima. Dalle nebbie dell'infanzia ad icona globale, un viaggio straordinario attraverso Italia del Mondiale del 1990, quando un centravanti dal talento istintivo e dagli stupori sempre accesi, fece sognare un intero Paese, trasformando una semplice estate in un’epopea di speranza, passione e gioia collettiva. In un ritratto appassionante che si tinge di emozione e nostalgia, Giorgio Porrà restituisce la storia di Schillaci, l’eroe per caso di un’estate magica, un ragazzo dalla vitalità dirompente, simbolo della riscossa sudista, che con i suoi lampi e lo sguardo spiritato ha unito tutti gli Italiani. Un racconto che va oltre il campo da gioco, rievocando i sogni e i ricordi collettivi.
Arricchito dalle testimonianze dei fratelli Giovanni e Giuseppe e dei compagni di allora, Beppe Bergomi, Giancarlo Marocchi, Aldo Serena e Walter Zenga, con l’intensità di chi sa toccare le corde dell’anima, Porrà rievoca le prodezze di Totò e le sue “pupille in technicolor” che brillarono durante quell’estate azzurra indimenticabile, ben descritta dallo scrittore Corrado De Rosa, psichiatra e autore di numerosi saggi e di “Quando eravamo felici - Italia-Argentina 1990: la partita da cui tutto finisce” - (2023, Minimum fax), a conferma di come il calcio possa ancora fungere da gigantesca metafora della vita e dell’identità di una nazione.
In questo senso, “Totò Schillaci rappresenta qualcosa di davvero unico, è l’eroe per caso, l’idea eterna di felicità, il rifugio sicuro in un passato di grandi sentimenti e grandi imprese”, racconta Porrà, in un passaggio che ben esprime l’anima della sua narrazione. Un appuntamento imperdibile per chi ha vissuto quelle Notti Magiche e per le nuove generazioni che vogliono scoprire la storia di un uomo che ha segnato con la sua semplicità e passione il calcio e il cuore degli Italiani.
L’Uomo della Domenica - Totò Schillaci, “Occhi di ragazzo”
Su Sky Sport e in streaming su NOW. Disponibile on demand
Venerdì 22 novembre
- Sky Sport Uno alle 22.30
- Sky Sport Calcio alle 23.45
Sabato 23 novembre
- Sky Sport Uno alle 8.15 e alle 23.15
- Sky Sport Calcio alle 00.30
Domenica 24 novembre
- Sky Sport Uno alle 11.15, alle 14.30
- Sky Sport Arena alle 22
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L’Uomo della Domenica - Totò Schillaci, “Occhi di ragazzo”
di Giorgio Porrà
È stato l’uomo che ha reso indimenticabile una Estate, il protagonista di una parte splendida, condivisa della storia italiana, il campione che si è dato a tutti, senza mai ubriacarsi di se stesso. Totò Schillaci, nel nostro immaginario, rappresenta qualcosa di davvero unico, è l’eroe per caso, il ragazzo magico, un’idea eterna di felicità, è il rifugio sicuro in un passato di grandi sentimenti e grandi imprese, anche se a Italia ‘90 i suoi lampi non bastarono per chiudere in gloria quel Mondiale. E poi gli occhi, lo sguardo, la lucida follia, la vita attraversata sorprendendosi ad ogni curva. E noi con lui, quando inventando gol dal nulla, Totò varcava puntualmente la soglia dell’impossibile.
“Ho un solo rimpianto. Non aver più provato la gioia dei tornei di strada a Palermo. Quelle sì che erano partite!” Totò Schillaci
“Era tutt’occhi Totò. E quanta tenerezza in quella ferocia, quanta sapienza del corpo, degli istinti, in quell’apparente semplicità di schema. Nel ‘90 nessun italiano era più famoso di Schillaci. E lui, guardando se stesso con quei famosi occhioni spiritati e sgomenti, fu forse il primo tra gli increduli. Era tutto troppo, e il ragazzo lo sapeva. Forse, dicendogli addio, è venuto il momento di chiedergli scusa per non averlo capito. Per essere stati superficiali con lui, abbagliati da uno sguardo”. Tratto da "Occhi di Ragazzo" di Maurizio Crosetti
OCCHI - “Se penso a Schillaci rivedo i suoi occhi sbarrati in una follia allegra, quella del povero che trova un sacchetto di dobloni e crede sia uno scherzo. E invece no, non sta sognando. È la vita” Gianni Mura. Gli occhi di Totò. Occhi enormi, dilatati, impetuosi. Occhi grondanti meraviglia. Volendo scomodare Montale: “Girasoli impazziti di luce”. Occhi inquieti, in subbuglio, sempre in procinto di schizzare fuori dalle orbite. Come se aspettassero quelle esultanze, quei dopo-gol, per fuggire altrove, per godersi da altre prospettive le espressioni sbigottite del loro invasato proprietario. Occhi fiammeggianti solo in quell’estate azzurra.
Quasi senza un prima, un dopo. Quando i Novanta sembravano i nuovi Sessanta, la stagione delle grandi speranze, forse l’ultima volta che siamo stati felici, o comunque non ancora disillusi. Una delle ragioni, forse la più potente, per cui gli occhi di Schillaci, assieme a quella sequenza di prodezze, insistono nello scatenare un irresistibile effetto nostalgia, al quale è impossibile sottrarsi. Com’era apparso chiaro anche nei giorni in cui Totò volava via, nel ricordo commosso dell’intera comunità del calcio. E conta poco, anzi nulla, che nello sguardo di Schillaci, in quelle notti speciali, gli italiani scoprirono un sogno, e in quel sogno a lungo si cullarono, ma svegliandosi di botto, senza nulla in mano, assaliti da una delusione difficile da elaborare. Perché a volte l’intensità di certi brividi è sufficiente per ammantare d’epica una storia, trasformarla in romanzo popolare, anche aldilà di un Mondiale sfumato proprio sul più bello. Com’è accaduto con Schillaci e le sue pupille in technicolor, da grande schermo. Anzi, di più, da ossessione hitchcockiana. Ma con lo stupore di Totò a prevalere, ad imporsi su qualunque paura, non solo cinematografica.
“Un giocatore simpaticissimo? Totò Schillaci. Aveva talento d’attore, i suoi racconti erano monologhi teatrali. In campo tentava l’impossibile e gli riusciva. A Italia ‘90 ero il capodelegazione della Nazionale. Il mattino trovavo Schillaci a colazione con l’aria persa di chi sta sognando. «Ma tu hai idea - gli domandavo - di quello che stai facendo in questo Mondiale?». «No», mi rispondeva sorpreso, scuotendo la testa e con gli occhi sbarrati. E poi tornava di colpo nel suo mondo fantastico”. Tratto da "Una vita a testa alta" di Giampiero Boniperti con Enrica Speroni
VISIR - “Totò era l’ultima tra le persone celebri di cui si poteva sorridere con supponenza, perché era davvero un genio diminuito, con una lingua tutta sua, forzata, come un motore che dispone solo delle marce corte" Sandro Veronesi
Chi sorrideva con supponenza di Schillaci, per la sua natura naif, l’eloquio impacciato, quel candore diventato bandiera, di sicuro ignorava la sua storia, unica, irripetibile e quale feroce risolutezza si celasse dietro quell’apparente semplicità, il disincanto con cui Totò respirava la vita. Schillaci era figlio del disagio, della strada, dei campetti improvvisati di Palermo, l’imprinting tatuato sul suo destino. Che lui seppe prepotentemente capovolgere. E quando mostrava quell’espressione un po’ così, tra il serio e il malinconico, tipica di chi preferirebbe essere altrove, era perché Totò in strada avrebbe voluto tornare, anche solo per un giorno, per una partitella e via, nei budelli, nelle viuzze del Capo, del C.E.P., il territorio scelto per realizzare la sua scuola calcio, oasi protetta per l’infanzia meno fortunata. Faceva coppia col cugino Maurizio, l’altro Schillaci, il più dotato, ma al quale non sarebbe bastato, per sfondare, un brillante repertorio da fantasista di fascia. Sembra non disponesse sul fronte disciplina, della stessa attitudine da marine già allora esibita da Totò, refrattario alle lusinghe della bella vita di provincia. Gli Schillaci, prima di imboccare strade opposte, giocano assieme due stagioni nel Messina, prima con Scoglio, poi con Zeman. Che piazza Totò al centro del suo calcio futurista, potenziandolo, con i suoi metodi estremi, anche sul piano fisico. Progressi che gli valgono la chiamata della Juve di Zoff, ingolosita dalla prospettiva di puntare, in attacco, sull’assortimento con Casiraghi. Idea intrigante, ma accolta, nell’ambiente, con un certo scetticismo. Perché Schillaci arriva a Torino già venticinquenne, con solide referenze, certo, ma da bomber di periferia.
È la scommessa di Boniperti, bollata come avventurosa da buona parte della critica, come se il Re Sole avesse affidato il suo esercito al più anonimo dei suoi moschettieri, svelto di lama, meno di parola. E quelle poche in dialetto siculo. E a tal punto intimidito Totò, da rivolgersi col “voi” ai compagni di squadra. Ma l’impasse dura poco, pochissimo, spazzato via dalla sua vitalità dirompente, primordiale, la stessa che vent’anni prima, sempre in bianconero, incendiava le voglie del catanese Anastasi, altro storico simbolo della riscossa sudista, in epoche di migrazioni di massa. Anche Pietruzzo, come Totò, centravanti dai gol e dalle utopie, lui campione d’Europa nel ‘68, apparentemente irrealizzabili. Schillaci nella Juve firma le sue prime reti a Verona. Doppietta alla seconda di campionato. Ma sono gol esangui, senza gioia, schiacciati dal peso della storia, la più crudele. È il 3 settembre ‘89, il giorno della scomparsa, in un assurdo incidente, su una sperduta strada polacca, di Gaetano Scirea. E di quegli istanti, nella memoria di Totò, resterà scolpita una sola, straziante sequenza. La maschera di dolore di Zoff, che di Scirea era il migliore amico, oltre che compagno di mille conquiste. Ma da lì in poi Totò non si ferma più.
E segnando a valanga capisce a quale stirpe di attaccanti appartiene. Stirpe privilegiata e poeticamente descritta da Niels Liedholm. Quella delle punte che non devono sfiancarsi a caccia del pallone, ci pensa lui a supplicare le loro attenzioni. E a corrergli incontro. Totò e la sfera, divina complicità. Come la tocca, comunque la tocchi, fa gol. In acrobazia, di sponda, per caso.
Come un tempo gli accadeva nei tornei di quartiere. Sono i colpi che ne esaltano la diversità, nessuno, come Schillaci, va in gol spremendo sostanza anche dalle giocate più estemporanee. Senza orpelli, ricami superflui. Gli assoli da cortile che lo spingono in quota, in Nazionale, ad un soffio dal Mondiale italiano. E quindi, estremizzando, da niente a tutto, dalla nuda terra all’ombelico del mondo, da picciotto del Capo a fenomeno di costume. Italia ‘90, la tappa decisiva del suo viaggio interstellare. “Italia ‘90 è come un fantasma: si nasconde, si insinua. Ti ricorda che, se qualcosa può andar male, andrà male. Si è fatto carico dei nostri sogni e li ha interrotti. Ma dobbiamo essergli grati anche per questo: ci ha preparati con garbo ad un’epoca di passioni tristi e disillusioni spietate. Italia ‘90 è tra noi, Italia ‘90 non muore mai”. Tratto da “Quando eravamo felici” di Corrado De Rosa
ILLUSIONE -“Il più solido piacere di questa vita è il piacer vano delle illusioni” Giacomo Leopardi
Nessun trionfo da santificare. Tutt’altro. Fu scioccante la bocciatura ai rigori in semifinale con l’Argentina, con Napoli, buona parte del suo popolo, schierato con Maradona, il figlio prediletto, e dunque, a prescindere, sempre protetto, venerato. Eppure, dentro di noi, Italia ‘90 resta sentimento radicato, nostalgia canaglia, ispirazione costante, come se risultasse ininfluente, nel grande gioco della memoria, e suggestioni connesse, l’ambizione svilita della Nazionale di Vicini, tra le più talentuose nella storia azzurra. E quindi la scoperta, traumatica, di aver vissuto soltanto una magnifica illusione.
E questo accade perché Schillaci, nel soffio di un’estate, scatenò un impazzimento collettivo, il cui fragore, anche nel ricordo, non si è mai dissolto, semmai si è trasformato, diventando, nelle nostre vite, dolce rumore di sottofondo. Come del resto già si intuiva a Mondiale appena concluso, col suo nome a imporsi subito come griffe d’esportazione. Tra gli omaggi globali, spiccava quello newyorkese, con una strada a lui intitolata nel centro di Brooklyn, mentre da noi, la politica si spingeva a teorizzare: “Schillaci ha cancellato ogni divisione, scavalcando di slancio la questione meridionale”. Insomma, Totò in un baleno, nel suo stile, da variabile anarchica a simbolo identitario. Nel calcio, qualcosa di mai visto prima, e certamente neppure dopo. E anche riavvolgendo il nastro, lucidando la memoria, l’impressione non cambia, le sue reti a Italia ‘90 restano folgori improvvise, i frutti del suo genio selvatico. Come il gol all’Austria, al debutto, quattro minuti dopo l’ingresso dalla panca al posto di Carnevale. E benedetto da Tacconi con parole profetiche: “Vai Totò e segna di testa come John Charles”. I primi segnali lanciati al paese che qualcosa di vagamente irrazionale, in quel Mondiale, cominciava a svelarsi. Schillaci e l’arte di scomparire, mimetizzandosi sullo sfondo. Per poi riemergere, seguendo rotte non tracciabili, nell’istante esatto in cui le partite si decidono. E pretendono che sia lui a farlo. Come succede con l’Eire, nei quarti, con il suo gol forse tecnicamente più difficile, perché la palla respinta dal portiere sulla conclusione di Donadoni, gli arriva sporca sul vertice di sinistra dell’area di rigore. E Totò, per indirizzarla nell’angolo più lontano, la colpisce chirurgicamente d’interno destro. Spedendo la comunità irlandese nella più cupa disperazione. Totò segna anche con l’Argentina, altro rapinoso tap-in, ma dopo il pareggio di Caniggia, che fu bravo, per dirla con Zenga, ad anticipare la sua idea di anticiparlo, e i supplementari senza scosse, non si presenta sul dischetto per la coda finale dei rigori. Un’infiammazione all’inguine lo costringe a fare da spettatore. Assieme a decine di milioni di italiani del tutto impreparati a quell’epilogo così brutale. Ma a quel punto Schillaci il suo Mondiale l’ha già stravinto.
A seguire sarebbero arrivate gratificazioni a pioggia: la Scarpa d’Oro, il secondo posto, dietro Matthaeus, nel Pallone d’Oro, persino il titolo, assieme ai compagni di Nazionale, di Cavaliere della Repubblica. Oltre alla vacanza esclusiva, in Corsica, a Cavallo, su invito dei Savoia, smaniosi di conoscere il nuovo Re su piazza. Ma sono pensieri che in quelle ore neppure lo sfiorano. Anzi, la frustrazione è tale che la notte post Argentina la trascorre insonne, all’aperto, nel giardino dell’hotel del ritiro azzurro, in totale solitudine. E quando, il giorno dopo, qualcuno gli domanda: “Totò in quelle ore hai pianto?”, lui risponde: “Tanto, ma solo dentro”, arroccato dietro i suoi pudori. Forse è anche per questo che Schillaci è sempre stato percepito come figura autentica, senza doppiezze, né sovrastrutture. Per la purezza d’altri tempi della sua missione di calciatore. “In Nazionale pochi compagni erano così diversi da me come Roberto Baggio. Forse fu per quello che il C.t. Vicini decise di metterci nella stessa camera. Lui era silenzioso, misterioso, spariva per ore e poi ricompariva estasiato. Capii quel Baggio solo anni dopo, quando seppi della sua fede buddhista, ma allora non ne avevo la minima idea. Ed anche se me lo avessero spiegato, che Roby si isolava per pregare, non ci avrei capito niente lo stesso”. Tratto da "Ragazzi di latta. Totò Schillaci si racconta" di Benvenuto Caminiti
SIMBIOSI - “Ciao mio caro amico, anche stavolta hai voluto sorprendermi. Nel mio cuore rimarranno per sempre impresse le Notti Magiche vissute insieme. Fratelli d’Italia per sempre”
L’ultimo saluto di Roberto Baggio a Totò Schillaci
Totò e Roby, l’eroe proletario, quello messianico, uno graffiava, l’altro affrescava, da una parte puro istinto, dall’altra soavità di tocco. Figure antitetiche, in apparenza non accostabili, per formazione, personalità, scelte extra calcio. Schillaci e il suo attimo fuggente, il quarto d’ora warholiano nel Mondiale, l’esplosione di una supernova. Baggio e la sua regale unicità, la grazia, il mistero a difesa del diritto alla bellezza, la tenacia per opporsi alle brusche traiettorie del suo mai lineare percorso d’artista. Insomma, diversi in tutto. Eppure, in quell’avventura azzurra, tra Schillaci e Baggio, compagni di stanza, e pure nella Juve, si instaurò un sorprendente legame sotterraneo, un’intesa sottintesa, con le differenze a diventare affinità, sino al feeling quasi telepatico sull’erba. Relazione, la loro, che a tratti assumeva toni da sitcom. Tra scherzi a tavola, tra i tanti, l’aceto versato da Roberto con l’imbuto nel vino del compagno, scaramucce da spogliatoio, come quella volta che Totò scrollò Baggio che lo canzonava per qualche votaccio in pagella sui giornali o incomprensioni di natura spirituale, con Schillaci a disagio davanti ai rituali buddhisti del Divin Codino. E poi, pensando alle difficoltà, a come superarle, le loro, in fondo, sono state vite a specchio. Schillaci e Baggio, anime da samurai, risorti sempre, è la storia a dirlo, da qualunque sprofondo. Schillaci dalla barbarie razzista, che a lungo lo perseguitò. Negli stadi gli sputi, i cori più spietati, fuori i più biechi pregiudizi.
Un viaggio, il suo, da emigrante perenne, palermitano a Messina, siciliano al nord, italiano in Giappone. Consapevole Totò di essere ovunque minoranza in battaglia, a protezione della propria dignità. Baggio dal calvario dei suoi gravi infortuni, via crucis di gambe spezzate, voli interrotti, recuperi prodigiosi, il supplizio dell’eletto costretto a convivere con strumenti del mestiere tanto fragili quanto perfetti, come da feroce legge del contrappasso. Schillaci e Baggio, con modalità diverse, si sono annusati, scontrati, piaciuti. Scoprendo di essere molto più simili di quanto loro stessi credessero. Strana coppia, certo. Ma in magica simbiosi fino in fondo. Come certificò l’ultimo respiro azzurro a Italia ‘90. A Bari, davanti all’Inghilterra, è il penalty trasformato da Schillaci a regalarci il successo e il terzo posto finale. Ma non era lui il rigorista designato. Era Baggio. Che sul dischetto, prima della battuta, si avvicina al compagno per sussurrargli qualcosa. Come da tempo era già scritto nelle generose stelle di Totò. “Nella Juve di Maifredi Totò segna poco, entra in crisi. Passa all’Inter, ma undici reti in due stagioni non sono degni della sua fama. Allora decide di agire come tanti suoi antenati, seppure con un diverso conto in banca. Parte. Per l’altro mondo. Per il Giappone. Tutti a dire: “Durerà un mese, poi tornerà”. E invece Totò conquista i giapponesi, diventa l’idolo dello Júbilo Iwata. È la seconda giovinezza di Schillaci.” Tratto da "Dizionario del calcio italiano. Come in una favola" di Darwin Pastorin
TOTOSAN - “Nei miei anni nel Sol Levante solo a una cosa non mi abituai: la filosofia fatalista attorno ai terremoti. Per i giapponesi sono un semplice contrattempo, come pioggia o vento possono giusto complicarti la giornata.” Totò Schillaci
Più di trent’anni fa, il 30 marzo 1994, Schillaci segna il suo ultimo gol in Serie A. Lo fa al Milan e pare la firma di un esordiente, non di un campione in apparente declino e in prossimità di una delicata svolta di vita. Quel giorno Totò sembra un ragazzino, indossa una maglia troppo grande, fuori taglia, e la chioma è tutta all’indietro, da giovane Gramsci. Persino gli occhi, nell’esultanza, sembrano irradiare una luce diversa, meno accecante del solito. Segnali di cambiamento. Della sua urgenza di ritrovarsi. E infatti solo un mese più tardi Schillaci avrebbe lasciato l’Inter per il Giappone. Non una fuga, come molti allora sentenziarono, semmai un nuovo, ben remunerato inizio. Come quando si staccò dal ventre materno siciliano. Certo, è sempre materia viva, affascinante, la ricca aneddotica sullo Schillaci nipponico, che anche sul piano umano, conquistò tutti. In fondo, non fu così difficile, gli bastò semplicemente restare se stesso. Pronti via, prima rifiuta gentilmente un suv gigantesco, regalo di benvenuto del suo nuovo club, lo Júbilo Iwata, temendo di dover pagare il "superbollo". Poi sottolinea con forza la necessità dell’accento nell’espressione “Totosan”, devotamente rivoltagli. Aveva scoperto che Totò, da quelle parti, era, lo è tuttora, un celebre marchio di sanitari per bagno. Ma è soprattutto sul piano dell’impegno, dei risultati, che Schillaci convince il calcio giapponese di aver scelto un testimonial tra i più credibili per tentare di sgomitare con sumo e baseball sul podio delle discipline nazionali.
Senza museruole tattiche a ingabbiarne l’immaginazione, Totò realizza più di sessanta gol in tre stagioni, seducendo un popolo in adorazione dei suoi tanti effetti speciali. Inarrestabile, in quegli anni, la travolgente totòmania, certificata da mille episodi: le file ordinate, dopo ogni allenamento, di centinaia di tifosi in attesa di un autografo o gli inchini in spettacolare sequenza durante le sue marce trionfali per il paese. Totò diventa uomo copertina di tutti i magazine, non solo sportivi, è conteso dagli sponsor, dagli eventi più esclusivi, la sua immagine compare persino sulle schede telefoniche. Insomma, il Giappone segna la sua rombante rinascita. Dentro di sé torna ad essere ciò che inseguiva, lo Schillaci delle Notti Magiche. Quello che godeva nel dimostrare che il talento ha sempre una dimensione folle, trasgressiva, a volte, persino inspiegabile. E pazienza se al ritorno in patria dovrà inventarsi qualcos’altro, le ripartenze hanno sempre scandito il suo percorso. Anche se nella prossima, e Totò lo sa, il calcio, nella sua vita, non avrà più la stessa ossessiva centralità. “Mio padre era un uomo semplice e la semplicità è una virtù, quella che mi ha lasciato in eredità. La popolarità non gli dispiaceva, ma non l’ha mai coltivata. È stato a suo modo un eroe, alternando momenti di splendore ad altri in cui scompariva dai radar. Ed è soprattutto in quei periodi che è stato un grande padre. Il nostro rapporto non è stato sempre facile, ma quale relazione genitori figli lo è? Certamente non è stato facile per nulla dovergli dire addio.”
Tratto da “Io e mio padre” di Jessica Schillaci
RISCATTO - “Lottare significa vivere, e vivere soffrire” Jack London
Quando Jack London, all’alba del Novecento, scrive "Martin Eden", l’appassionante avventura di un marinaio diventato scrittore, non può certo immaginare che un giorno, quella storia potente di riscatto sociale, avrebbe ispirato, indicandogli la strada, il futuro centrattacco della Nazionale Italiana. E questo succede, così almeno si tramanda, per la passione del piccolo Totò per quel libro ricevuto dalla prof delle medie, che forse intuisce, prima degli altri, quale capolavoro di ostinazione si sarebbe rivelata la sua vita. Come quella di Martin, appunto, l’eroe londoniano. Ed è uno Schillaci coraggioso, persino temerario, quello che torna dal Giappone, obbligato a testarsi in nuove realtà.
Al centro la ferma volontà di spendersi per la sua Palermo, per i quartieri più difficili, con il centro “Ribolla” da lui fondato, certo, ma anche con l’impegno in politica, da consigliere comunale, dimensione non esattamente a lui affine. E infatti, da quella esperienza, sarebbe uscito profondamente deluso. E poi la tv, in varie, disordinate forme, persino da protagonista di reality avventurosi quando il male lo aveva già colpito, come sospinto dal desiderio compulsivo di continuare a sfidarsi, aggiungere vita ai giorni, quasi presagisse la prematura uscita di scena. Tutto fatto alla sua maniera, mai dimettendosi da se stesso. Totò e la sua semplicità, lo scavare continue voragini tra sé e il divismo, l’essere così spudoratamente vero da appartenere a tutti. E poi quell’aria spesso un po’ svagata, da imbucato dentro qualcosa di sempre troppo grande, indossata con naturalezza anche nel dopo calcio. Come quella mattina del 16 gennaio 2023 quando a Palermo, nella clinica La Maddalena, i reparti speciali catturano il boss Messina Denaro. Beh, Totò è lì, per curarsi, e diventa testimone per caso sulla scena di quello storico, clamoroso arresto. Dalla polvere al vertice, senza tappe intermedie, in vertiginosa ascesa e poi d’improvviso l’oblio, ad inghiottire quasi tutto, non la grandezza di ciò che è stato. Né tantomeno la sua dignità.
La vita sportiva di Schillaci rappresenta la perfetta parabola del successo, quasi sempre capriccioso, quasi mai definitivo. Ed è anche una pagina di storia destinata a non sbiadire, perché Totò l’ha scritta, sceneggiata come meglio non avrebbe potuto, depurandola delle parti noiose, il primo segreto di qualunque film ben riuscito. Un’esistenza da misurare in attimi, non in minuti, e neppure in giorni, perché è in quegli istanti cult di Italia ‘90 che Schillaci, a suo modo, diventava leggenda. Iperbole della quale Totò, spalancando gli occhi, gonfiandoli di stupore, sarebbe il primo a sorridere.