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Fabio Capello, successo dalla panchina al microfono

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Fonte: Il Corriere della Sera

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Televisione

CapelloPer una corretta fenomenologia di Fabio Capello bisogna rispolverare Luciano Moggi. Come il nostro super mascellone, anche Lucianone è uno che s'arrabbia e prende a mandibolate gli avversari, salvo poi, in nome di un superiore pragmatismo, lasciarsi tutto alle spalle.

Quando Capello arrivò nottetempo da Roma a Torino, (via stadio d'avvocati a Milano), tutti andarono da Moggi a contestargli il passato giacobino del nuovo tecnico: «Ma come, prendete lui? Sono anni che dice di tutto contro la Juve, aveva perfino sentenziato che non avrebbe mai allenato da voi». Sardonico, Moggi rispose: «Ognuno di noi, nel calcio, interpreta un ruolo che gli è imposto dal luogo dove sta». E Capello ora interpreta il ruolo di commentatore tv con un crescente successo.

In pratica, Capello arriva presto, finisce presto e non pulisce il water. Insomma è un super-professionista, di più, un super-aziendalista. Non mette mano a quello che non gli compete, ma quello per cui è stato ingaggiato lo farà benissimo. Non c'è nessuno più fedele alla causa di lui perché la fa collimare con i suoi interessi, interpretandola senza la zavorra della trita retorica da curva (la bandiera, la fede, la città, la maglia e altre balle simili). Non frequenta tifosi, non lega con i giornalisti. Non erede e quindi non firma contratti a vita. I suoi accordi, redatti dal suo bravissimo avvocato, sono pieni di clausole, di codicilli. Tutti a prova di licenziamento (vedi Real).

Capello, come sul campo, anche sulla carta (bollata) non perde mal Dietro di sé non lascia affetti, al limite trofei.

Così, solo chi non lo conosce bene, può credere che ci sia una frattura tra il Capello allenatore e il Capello commentatore. Non c'era neanche alla fine degli anni 90, quando studiò (su consiglio-suggerimento-ordine di Berlusconi) da manager. Girava col doppiopetto, la porta-documenti, si occupava di strategie e finì ad allenare il Milan. Non c'è nessuna differenza tra quello che stava in panchina e quello che davanti alla telecamera, se ne esce, come è successo a Modena, con un'auto-promozione: «Io all'lnghilterra? Sarebbe un'impresa e ho l'età giusta».

E ancora: «Nell'intervallo ho firmato 170 autografi». Domenica sera, alla Domenica Sportiva, mentre tutti sostenevano che Chiellini aveva commesso fallo (da quell'azione è nato il gol di Panucci), lui ha spiazzato tutti offrendo una nuova e convincente chiave di lettura a favore del difensore italiano.

Capello non è mai stato banale. Non prende decisioni popolari. A Madrid, quando arrivò la prima volta (1996) scoprì che i giornalisti al seguito del Real alloggiavano nell'albergo della squadra. Li cacciò senza pensarci due volte. Prende le situazioni di petto, ma sa anche scansarsi. È stato, finora, quello che ha cavato il meglio da Cassano e non è che i due non abbiano litigato. Un anno fa, al Real, spedì Beckham ad allenarsi con Victoria e i bambini, poi, però, lo richiamò quando s'accorse che poteva tornargli utile.

Quando allenava erano leggendari i cazziatoni in diretta a Enrico Varriale della Rai Ora discorre amabilmente col medesimo sugli aerei che trasportano le truppe azzurre. Alla Juve ordinò ai suoi giocatori di non buttare fuori il pallone quando un giocatore finiva a terra, ma di continuare a giocare, suscitando un vespaio. Con la stessa ideologia ha preso di petto l'avventura televisiva sorprendendo l'ingessatissima platea Rai, abituata ai commenti alla verbena. Capello spiazza, sorprende, prende posizione. Prima o poi se ne andrà anche da lì. E senza pulire il water.

Roberto Perrone
per "Il Corriere della Sera"

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