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De Laurentiis contro la Melandri: legge imperfetta

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Fonte: Libero Mercato

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Sport
Ciak, si gira. Cinema, calcio e intrattenimento fa poca differenza: Aurelio De Laurentiis, classe '49, titolare della Filmauro (nipote di quel Dino De Laurentiis e figlio di Luigi che hanno fatto la storia del cinema italiano), presidente onorario dei produttori mondiali di 26 paesi e presidente del Napoli Calcio. Il film virtuale che narra l'Italia di oggi rappresenta una Nazione "intirizzita" «senza respiro internazionale, priva dell'idea di un sistema-paese che punti sui giovani per superare gli interessi particolari e pensare a quelli generali».
 
Presidente, allora è d'accordo con quanti praticano la retorica del declino?
«Purtroppo questo è un Paese che si trascina grandi problemi dagli anni '60. Vede, quando ero ancora un radazzino mi consideravo un po' il discolo di famiglia perché mi piaceva andare contro gli adulti che avevano creato delle regole fatte solo per loro. È passato quasi mezzo secolo e abbiamo vissuto tutta una serie di trasformazioni sociali che non hanno fatto altro che mascherare la realtà di fondo: la volontà della società e della politica di non far crescere i giovani, di non creare scuola e università di qualità, di mantenere inalterato lo status quo. E adesso ne paghiamo le conseguenze...»
 
In che senso?
«Da un lato i giovani facevano comodo perché nell'Italia dello sviluppo rappresentavano i nuovi consumatori, dall'altro occorreva non farli mai diventare i concorrenti del ricambio. Così i giovani molto spesso hanno perso la voglia di competere e di osare. E' mancato nella politica e nella società civile un salto generazionale. I vecchi manager non hanno spesso concesso al "nuovo" di avanzare bloccando innovazione e benessere collettivo. Così troviamo sempre gli stessi personaggi ancorati alle poltrone che contano. Ancora oggi vedo i progetti bloccati da chi ha superato da molto i 60 anni».
 
Questo succede anche nel cinema?
«Certo i politici in Italia preferiscono la televisione al cinema strumentalizzandola e utilizzandola come mezzo di propaganda. La tv consente di entrare nelle case di tutti per creare consenso. Anche questa è mancanza di lungimiranza. Perché il cinema può essere il vero ambasciatore all'estero del made in Italy, e potrebbe diventare il traino delle nostre esportazioni, attraendo inoltre turismo sul nostro paese e convincendo gli Italiani stessi che i loro prodotti e i loro siti sono più trendy di altri».
 
Eppure, nell'ultima Finanziaria le risorse a favore del settore sono cresciute. L'allargamento del credito di imposta dovrebbe garantire 20 milioni per il 2008 e altri 160 nel biennio 2009-2010. E anche i fondi del Fus (il fondo unico per gli spettacoli) sono aumentati...
«Non basta. Merito a Rutelli per aver dato più soldi al cinema, ma non basta. E' una goccia nel mare delle cose che ci sarebbero da fare. A partire dalla sfida al mercato internazionale. Se il cinema italiano vuole vincere la concorrenza deve sbarcare sul mercato internazionale non perdendo di vista quello americano e quello dei paesi emergenti».
 
E quindi?
«Per fare questo servono investimenti importanti e mirati, ma serve soprattutto la volontà di imporre in Italia e all'estero il gusto e la consapevolezza che essere italiani, con pregi e difetti, deve essere considerato un "plus" e che il "made in Italy" è un "must" anzi una filosofia di vita. In altre parole dobbiamo abbandonare la nostra negatività e dobbiamo investire nel campo della comunicazione per dare un'immagine di grande qualità su tutto ciò che rappresenta l'italianità».
  
Dai sogni del cinema a quelli del calcio. Dal 2004 lei è presidente del Napoli. Ha portato la squadra dalI la C alla A e adesso i tifosi sognano in grande. È ipotizzabile la quotazione in Borsa?
«No, non credo. Il calcio attualmente si lascia ancora troppo influenzare dall'emotività conseguente ai risultati settimanali. Si va in ascensore dalla depressione all'esaltazione e viceversa con troppa facilità. Questo creerebbe una volatilità che non è in linea con la mia mentalità di imprenditore».
 
Lei invece è abituato a programmare nel tempo?
«Si. Vede, già nel 1999 avevo presentato un'offerta da 120 miliardi di lire, la banca garante era la Bnl, per acquistare il club. Poi non se ne fece più nulla. Questo per dire che l'operazione del 2004 non è stata estemporanea, anzi. Abbiamo fatto tanti investimenti, abbiamo creato la nuova casa del Napoli a Castelvolturno, abbiamo 10 squadre del settore giovanile con 450 iscritti, abbiamo trovato un accordo con il Comune per la gestione dello stadio San Paolo e abbiamo acquistato tanti giocatori».
 
E adesso? I tifosi si aspettano il grande nome...
«Adesso siamo in una fase di consolidamento. L'obiettivo non è prendere il grande nome che esalti la folla, ma portare avanti un progetto molto più ampio che riguardi il futuro del calcio italiano in generale...»
 
Questo discorso riguarda in qualche modo anche il decreto Melandri che prevede dal 2010 la contrattazione collettiva dei diritti televisivi del calcio?

«Sì, infatti. Mi sembra un punto di partenza completamente sbagliato decidere oggi, in uno scenario tecnologico e mediatico in continua e velocissima evoluzione, come cambiare la contrattazione e la ripartizione dei diritti delle partite a partire dal 2010. Tutto ciò potrebbe determinare un depauperamento della spettacolarità e della competitività del calcio italiano in campo internazionale, mentre al momento siamo campioni del mondo come "Nazionale" e con il Milan come squadra di club. Il rischio è che i club italiani potrebbero trovarsi nell'impossibilità di gareggiare alla pari con i club francesi, tedeschi, inglesi, spagnoli etc. nell'offrire lo spettacolo migliore».
 
E allora? Lei come vede il calcio del futuro?
«Io vedo la B e la C come un unico grande serbatoio per una Lega di serie A, bloccata e senza retrocessioni. Anzi, mi spiego meglio. Con gli anni l'evoluzione dovrebbe portare verso un unico campionato europeo, suddiviso per gironi. Allora ci si contenderebbe un bacino di spettatori virtuali composto da centinaia di milioni di tifosi. E ancora più avanti nel tempo, in uno scenario planetario penso a nuovi mercati come la Cina, ancora tutti da scoprire. Invece siamo qui nel galcio, come nella politica e nel cinema, a perdere tempo nelle piccole beghe, disinteressandoci di programmare un futuro così splendente».
 
Tobia De Stefano
per "Libero Mercato"
(12/01/08)

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