E la televisione, Panariello?
«Mai dire mai. Certo, non farò più un programma legato alla Lotteria. Accusarono la mia televisione di essere deficiente, ma avete visto quello che c'è in giro oggi?».
Quella polemica le fa ancora male.
«Certo. Le accuse pesano sempre, quella in particolare ancora di più, perché la mia tv non mi sembrava così brutta come dicevano. Il fatto è che se devi assecondare l'Auditel
non fai più ciò che vuoi. Se hai lo stress di dover superare per forza Bonolis e la De Filippi, accetti cose che non metteresti mai nel programma. Insomma, in nome dell'Auditel si commettono...».
Delitti...
«Sì, delitti; ma l'importante è non tornare spesso sul luogo del delitto».
E quali sono stati i suoi?
«Non accetterei più un programma che duri così tanto come gli show della Lotteria. Perché si finisce per allungare troppo il brodo e, allora, ecco qualche gag meno riuscita, qualche ospite che si poteva usare meglio. Tornerei, ad esempio, per una fiction dove, per la prima volta, realizzerei il sogno di interpretare un ruolo drammatico. Ho già il soggetto».
Di che si tratta?
«È la vita di Arpad Weisz, allenatore di calcio ebreo ungherese. La racconta un libro che mi ha colpito molto: "Dallo scudetto ad Auschwitz", di Matteo Marini. Negli anni Quaranta questo Weisz allenò con gran successo il Bologna e l'Inter, poi fuggì in Olanda, dove portò una squadra dalla C alla A. Fino a quando i nazisti se ne accorsero. Le sue tracce si perdono nel campo di sterminio. La proporrò alla Rai».
Dalle stelle alle stalle: esempi di tv deficiente oggi?
«Non ne faccio. Dico solo che un reality, "L'Isola dei famosi", basta. E Benigni e Celentano dimostrano che si può fare tv di qualità. Ma con un distinguo».
Quale?
«La Rai dovrebbe coltivare di più il vivaio, sperimentare nuovi talenti e programmi, cercare nuovi Celentano e Benigni. Se non c'è sperimentazione la tv di qualità resta troppo legata ad eventi unici, come "La situazione di mia sorella non è buona" o lo show su Dante».
«Faccio del mio meglio» è una galleria dei suoi personaggi.
«Vedrete Merigo, Naomo, Renato Zero e un nuovo figuro, l'homo vogue, evoluzione dell'homo sapiens, che fa il verso a tanti maschi ammalati di narcisismo. Poi c'è il mio vecchietto, quello che chiude lo spettacolo, un portafortuna e anche una riflessione che va oltre la comicità. Questo show è nato come "gratest hits", ma nel corso delle repliche è diventato un'altra cosa».
Cosa?
«Strada facendo, mi sono accorto che il tema è l'incomunicabilità. Comunichiamo via Internet tra continenti, ma non sappiamo più farlo dentro casa o con chi abita sullo stesso pianerottolo. Ecco, allora, i messaggi sugli anziani, sugli animali, e sui bambini».
Quel vecchietto ha a che fare con la sua gioventù, vero?
«Sì. Sono stato cresciuto dai nonni, quelli di Torre De Greco. Lei morì, e lui passava le giornate giocando a briscola, da solo. Mi chiedeva: "Dai, facciamo una partita". Io ero giovane: "Un'altro giorno, nonno, un altro giorno". Il nonno se n'è andato e ora io lo porto in scena cercando di convincere i ragazzi a non commettere lo stesso mio errore di allora».
Naomo, Merigo e gli altri suoi personaggi rappresentano il Paese di oggi o l'Italia è diventata assai peggiore di quella che era quando lei li ideò?
«È proprio così. Mi rendo conto che appartengono al paese dei Campanelli. Ma oggi ci sono personaggi che non vale la pena rappresentare... oppure sì, ecco, dovrei inventarne uno cinico, ma proprio cinico assai».
Luciano Giannini
per "Il Mattino"
per "Il Mattino"