
Parlano le cifre. Il bilancio di Sky 2007/2008 espone un fatturato di 3,8 miliardi, con un risultato operativo di 419milioni. E un ascolto che talvolta tocca il 25 - 30 per cento. A soffrire sono naturalmente le televisioni generaliste. Il valore da raggiungere per "vincere la serata", e cioè in genere il confronto fra Rail e Canale5, si abbassa costantemente. Fino allo scorso anno questo valore andava mediamente dal 25 al 30 per cento. Oggi si riesce a "vincere la serata" anche con risultati intorno al 20 per cento.
Questo smottamento tendente alla valanga del pubblico delle generaliste non potrà che riflettersi sugli investimenti pubblicitari, strettamente vincolati al costo contatto, al numero degli spettatori in qualche modo garantiti dalla rete. Nemmeno il più spensierato ottimista può immaginare crescenti investimenti pubblicitari su reti che non riescono più ad assicurare alti numeri di spettatori. Qualcuno in passato ebbe il garbo di dire che i programmi televisivi, fiction e intrattenimento, erano solo riempitivi fra gli spot pubblicitari e che i network vendevano spettatori. Facilissimo dirlo in un mercato, come quello di allora, in forte crescita.
Ma l'effetto di questa miopia si riflette ora sui bilanci dei due broadcaster, e sulle quotazioni azionarie dei gruppi interessati. Ci troviamo di fronte ai primi seri danni economici derivanti da una visione conservatrice dell'industria, di uno spasmodico tentativo di congelare uno status quo profittevole. La pigrizia progettuale non paga.
Manca nella nostra industria una vera concorrenza sui progetti. Si è privilegiata una struttura clientelare, con l'allocazione del budget a gruppi ristretti, anziché tentare la strada, certo rischiosa ma potenzialmente decisiva, dell'innovazione di prodotto. È necessario sottolineare, qualsiasi cosa ne pensino gli improvvisati analisti che sentenziano credendosi Galli nel pollaio, che nei due network esistono persone e risorse di altissima professionalità, certamente all'altezza dei loro colleghi nel resto del mondo, e certamente capaci di rispondere alla sfida del cambiamento.
Non sono le persone che mancano per fare una televisione migliore. Quello che manca, e che non si può fingere, è un'autentica ricerca per superare la concorrenza. Negli Stati Uniti dove i network televisivi competono duramente per assicurarsi le quote degli investimenti pubblicitari, e dove quindi il profitto dei broadcaster è direttamente proporzionale alla qualità del prodotto e al gradimento del pubblico, i risultati in termini di innovazione sono evidenti. Non è un caso che lì, come altrove nei paesi più avanzati, i profitti dell'industria non si patrimonializzano solo per i broadcaster, ma rifluiscano sui produttori e sugli autori.
Il nostro centralismo industriale sembra negare i principi stessi dell'economia liberale in cui la ricerca e l'innovazione di prodotto sono innescati da traguardi economici da raggiungere. Battere la concorrenza non è affatto un optional, ma un atteggiamento mentale che consente di far emergere talenti e professionalità. L'opposto si verifica quando l'input non detto, ma pressante, è invece quello della conservazione sclerotizzata dell'esistente.
Questa ideologia inconscia poteva funzionare solo quando per il pubblico non esistevano alternative. L'incremento costante degli spettatori del satellite sta costringendo le generaliste ad un'alternativa secca: perdita continua degli introiti pubblicitari oppure vera competizione. E quindi ricerca sul prodotto.
Francesco Scardamaglia
per "Il Riformista"
(06/10/08)
per "Il Riformista"
(06/10/08)