Di più è di più. Così, semplicemente, si può riassumere una svolta della tv. Il nuovo slogan assomiglia al fortunato «di tutto, di più» della vecchia Rai, ma ha ben altra storia. «Di più è di più» era il motto della dinastia dei Tudor.
E a segnare questa svolta di più-di più della tv è proprio l'imminente grandioso lancio della serie televisiva con Jonathan Rhys Meyers nei panni (e soprattutto pure senza i panni) di Enrico VIII. Sesso e Utopia, intrighi e collarini, guerre e farsetti, ossessioni d'amore e riforme religiose in una spettacolare ricostruzione cinematografica per la tv che negli Stati Uniti ha segnato un salto di qualità del più importante canale a pagamento, Showtime.
The Tudors è la serie più costosa mai prodotta da Showtime, e si vede da sontuosi costumi che hanno assorbito buona parte dei 38 milioni di dollari di budget. Già alla prima puntata, giusto un anno fa, ha raccolto un ascolto addirittura triplo alla media del canale, e un risultato di gran lunga superiore ai vari telefilm giovanilistici della stessa Showtime, persino più del mitico noir Dexter o della green-comedy Weeds. Mentre Showtime lancia la seconda stagione con lo slogan «obsession can change the world», in Italia si prepara il terreno di quell'ossessione che cambierà appunto la storia del mondo, con l'anteprima dei Tudors su Mya di Premium Gallery dal 24 aprile. Un appuntamento che persino i critici snob del New York Times accolsero subito letteralmente come «meraviglioso: i set e i costumi sono magnificenti, la regia luminosa e ricca, la scrittura accattivante e deliziosa». In seguito pare che questo polpettone cinetelevisivo col bel cattivo del film Match Point diventi più discontinuo e meno convincente, ma è una questione di gusto.
Il lancio dei Tudors, testa a testa con gli attesissimi nuovi episodi di Lost sui canali Fox del bouquet Sky, segna il passaggio della tv-tv alla scena digitale. Finora la digi-tv aveva raccolto soprattutto pubblici di nicchia, magari molto importanti, ma pur sempre meno «generalisti» di quelli della tv tradizionale. E' un vero e proprio nuovo divario culturale, il paio del cosiddetto «digital-divide», quello che separa ormai chi si sorbisce la solita vecchia tv, e chi pagando può permettersi di accedere ai canali digitali.
In Italia a Sky si sono affiancati i tre nuovi strani canali di Premium Gallery, Joy, Mya e Steel: Mediaset li sta spingendo persino con offerte che si comprano come le ricariche dei cellulari. E il risultato finale è che, secondo i dati dell'indagine di base ufficiale per l'Auditel, sono ormai 8,6 milioni le famiglie italiane digital-televisive. Aldilà degli indici di ascolto effettivi, che sono ancora difficili da calcolare, la svolta è nei fatti.
Per esempio, è evidente che se uno spettatore si avvicina allo stile e ai linguaggi della nuova produzione seriale Usa (che peraltro le reti generaliste sacrificano con programmazioni insensate), resta stregato: ed è davvero difficile tornare indietro. Di una serie firmata Matthew Weiner, come i celebri Soprano e l'ammaliante e spregiudicato Mad Men che va ora in onda su Cult, gli americani dicono che è fatta talmente bene che si può guardare senza audio. Di un teen-drama come Gossip girl si occupa persino il raffinato settimanale The New Yorker.
E il «Di più è di più» dei Tudors non è roba da mammolette di Rivombrosa, è davvero crudo. Alla fine il «digital-divide» televisivo è anche una questione di censura, perchè sulle reti generaliste viene tutto ancora massacrato secondo un'improbabile ma ferrea logica moralistico-politica. E quest'anno ci si è messo persino lo sciopero degli autori, che fornisce il pretesto per un nuovo disordine a chi decide le griglie rigide della tv tradizionale.
Nella digi-tv le serie vengono mandate e rimandate in onda senza grandi problemi, in perenne «loop». Ogni giorno in tutto il mondo viene vista una qualche puntata di un qualche Csi, ed è così che è diventata la serie record di pubblico di tutta la storia dello spettacolo. Di più è di più, appunto.
Paolo Martini
per "La Stampa"