Giorgio Porrà racconta l’impresa del Verona 1985: scudetto leggendario firmato Bagnoli, simbolo di un calcio visionario, operaio, libero da ogni retorica. L’appuntamento con la nuova puntata de “L’Uomo della Domenica – Discorso su due piedi”, su Sky Sport Calcio, e in streaming su NOW. Disponibile on demand. Con le voci e le interviste di Briegel, Volpati, Tricella, Galderisi, Fanna ed Elkjaer, autori di un’impresa calcistica ad oggi irripetibile; con l’amichevole collaborazione dell’Hellas Verona FC.
Il 12 maggio 1985 l'Hellas Verona scrisse una pagina indimenticabile nella storia del calcio italiano, cucendo per la prima volta lo scudetto sulle maglie gialloblù e nel cuore di tutti i veronesi e le veronesi, ma anche di moltissimi appassionati di calcio. Un successo straordinario che - escludendo il calcio pioneristico degli anni Venti di Pro Vercelli, Casale e Novese - rende Verona l'unica città non capoluogo di regione vincitrice in un Campionato a girone unico di Serie A. Percorso reso possibile non grazie ai fuoriclasse, ma attraverso una lucida progettualità, un collettivo coeso e una filosofia semplice e geniale, capace di sovvertire ogni gerarchia. Un modello alternativo nell’epoca delle frontiere aperte, in cui spiccavano Maradona, Platini, Zico, Falcao, Socrates e Rummenigge.
L’aritmetica vittoria del campionato arrivò il 12 maggio 1985, dopo il pareggio 1-1 in casa dell’Atalanta, coronando il memorabile cammino dell’Hellas Verona, in un campionato illuminato da alcuni dei più grandi protagonisti del calcio internazionale e per questo considerato il più bello al mondo.
Giorgio Porrà ripercorre quella stagione con il suo stile inconfondibile, fatto di narrazione d'autore, suggestioni culturali e attenzione al dettaglio umano, e lo fa accompagnato dalle testimonianze dei protagonisti di allora. A partire da chi scese in campo in quell’anno magico: Hans-Peter Briegel, “la fortezza volante”, dal suo approdo a Verona al ruolo inedito che Bagnoli gli ritagliò da goleador di lotta e di governo; Roberto Tricella, il capitano, simbolo di leadership silenziosa, fiero di testimoniare l’armonia di uno spogliatoio unico. Domenico Volpati, pilastro del centrocampo di un gruppo che giocava a memoria; Giuseppe Galderisi, il bomber, e Pierino Fanna, l’esterno imprendibile, rievocano momenti chiave e aneddoti di un gruppo consapevole e ispirato. E ovviamente Preben Elkjaer, l’eroe senza una scarpa, che con la sua esplosiva irregolarità divenne leggenda e simbolo della provincia che si prende la scena.
Ad arricchire il racconto, le voci di Damiano Tommasi, veronese ed ex calciatore, oggi sindaco della città, che di recente ha approvato in giunta preliminare la proposta per il riconoscimento della “Cittadinanza Benemerita” alla squadra campione d'Italia 1984/85 e riflette sull’eredità valoriale di quella vittoria. I giornalisti Fontana e Scemma che offrono una lettura storica e tecnica dell’impresa, mentre Paolo Condò, firma di Sky Sport e testimone del tempo - autore proprio con Adalberto Scemma del recente “Lo scudetto del Verona” (Ed. Solferino) - colloca quella vittoria nella grande narrazione del calcio italiano.
Non manca l’incursione ironica e appassionata di Franco Oppini, tifoso speciale, che ricorda il Verona come simbolo di un’epoca irripetibile, non solo calcistica ma anche culturale, autore, insieme ai Gatti di Vicolo Miracoli di “Verona Beat”, inno tanto amato dai tifosi gialloblù, simbolo di quel calcio di provincia che fu e ancora vive.
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VERONA CAMPIONE 1985 - PROVINCIA PARADISO
di Giorgio Porrà
Quarant'anni fa, nel calcio italiano, accadeva qualcosa di sorprendente. Una squadra speciale imponeva l’immaginazione al potere e, osando l’inosabile, vinceva uno scudetto leggendario, l’unico di una città non capoluogo di regione. Il Verona di Osvaldo Bagnoli diventava Campione d’Italia scavalcando le grandi, innovando il gioco, rilanciando talenti, affermando un modello virtuoso di calcio sostenibile. Un’impresa firmata dal teorico della rivoluzione silenziosa, l’uomo col naso arcuato e l’anima progressista, partito dalla fabbrica per scoprire il mondo, senza la pretesa di conquistarlo. Perché Bagnoli, il suo, di mondo, fatto di onestà e buon senso, se l’è sempre tenuto stretto. Epica Campioni d’Italia, in testa dall’inizio alla fine, com’era riuscito in passato solo a Juventus, Inter e Milan. L’euforia cancella di colpo l’antico “andar piano” dei veronesi, con secoli di goldoniane sfumature, di brume, di nebbie a mettersi di traverso per soffocarne l’ottimismo. Verona è stupenda e prudente, e il suo spirito sta racchiuso nel dialogo del balcone tra Giulietta e Romeo: “È ancora notte o s’avvicina l’alba?”. Ora è città leggera e felice. Non amo gli slogan, ma stavolta devo proprio cedere, “Veronese è bello”.
A ciascuno la sua epica. Quella veronese spiccò per i contorni imprevisti e imprevedibili. Lo scudetto non solo sovvertì l’ordine costituito, terremotando le classiche gerarchie del campionato, alla stregua dei tricolori, in altre epoche, di Cagliari e Sampdoria. Ma impattò con forza sulla natura prudente di chi quel privilegio era chiamato a celebrarlo, a viverlo fino in fondo. Di colpo, in città, lo scudetto spazzò via cautele, resistenze, qualunque inibizione. Impose il diritto alla gioia. Al godimento del trionfo. Da trasformare in romanzo popolare. E così accadde. Con le bandiere alle finestre, i cortei in festa dall’Arena a Piazza delle Erbe, con le auto dipinte di gialloblù, come del resto le strisce pedonali. Verona, quel giorno, si scopriva ombelico del mondo. Citando il poeta, null’altro “fuor dalle mura”. Un titolo che aveva ben poco di miracolistico. Era figlio di un dominio mai oscurato, con una rosa di soli 17 giocatori. La puntuale conseguenza di una lucida visione, di una strategia quasi scientifica, issarsi lassù senza lasciarsi intrigare da mode, vetrine, costosi fuoriclasse, in quell’euforico calcio italiano che aveva spalancato le frontiere, deciso a comandare, a scintillare ovunque. Meglio andare controcorrente, s’ingegnarono a Verona, all’indomani del ritorno in serie A, in testa la proprietà Chiampan, il presidente Guidotti, il d.s. Mascetti, strutturandosi tassello su tassello, con giocatori sottostimati altrove, fieri di essere anomalia dentro al sistema. Lo scudetto arrivò per gradi, dopo un quarto e un sesto posto. E con innesti fortunati, anno dopo anno, a innervare lo zoccolo duro, a cementare basi già solide. Su tutti quelli di Preben Elkjaer Larsen, il bisonte danese, e di Hans Peter Briegel, la fortezza volante, stranieri di lotta e di governo, innamorati del sogno, mai di sé stessi. E poi certo, il tecnico, Osvaldo Bagnoli, lo “squalo bonario” nella poetica breriana, privo di orpelli e appeal mediatico, magari a tratti ruvido, scontroso per eccesso di timidezza, ma ricco, ricchissimo, di un’umanità profonda, respirata, fatta propria, nella dura banlieue nordista del dopoguerra. Fu lui, ed è status incontestabile, il grande artefice della conquista veronese.
Altoforno “Osvaldo Bagnoli era un milanese della Bovisa, figlio di operai, era stato un buon difensore di centrocampo e quello voleva rimanere anche da tecnico. Ma aveva un piccolo genio dentro. Si divertiva a vivere contemporaneamente in più luoghi dell'intelligenza. E a sprigionare scintille tattiche destinate a passare alla storia. Il suo Verona Campione d'Italia poggiava su una decina di movimenti trappola semplici e letali. Era una squadra moderna, perché ambigua e trasversale. Moltiplicava le sorprese congegnate dal suo allenatore.” Tratto da ‘Storie delle idee del calcio’ di Mario Sconcerti Osvaldo Bagnoli, l'allenatore in tuta. Da operaio, come i genitori, lui che sognava di fare il tipografo per poi scoprirsi protagonista di una delle storie più incredibili del nostro calcio. Frutto della grandezza della sua raffinata semplicità. Le origini proletarie nella periferia milanese, scenario scarno da film postbellico, sorta di Far West di ortaglie e ciminiere, dove il giovane Osvaldo giocava a piedi nudi, ma senza suggestioni sudamericane. Altro che Copacabana, ha sempre ironizzato lui, ricordando quel ragazzo taciturno che correva dietro a una palla fatta con la carta bagnata e legata con una corda. E l'orgoglio della strada, della fatica, Bagnoli, in tutte le successive esperienze, l'avrebbe sempre fieramente rivendicato. Quando da mediano tuttofare sbarcò nel Milan, quello di Liedholm, Nordhal, Schiaffino, lo ribattezzarono ‘la formichina’, perché ogni giorno imparava qualcosa e la metteva da parte, con quello sguardo pensoso in costante, febbrile attività. Abitudine poi rivelatasi preziosa anche in panchina, nella elaborazione del suo football essenziale, di pura logica, 'l tersin fa 'l tersin, uno dei suoi mantra più celebri, e quindi calcio “splendidamente italiano” per dirla con la critica conservatrice, ma anche dallo spirito quasi eversivo con creative variazioni sul tema prodotte da giocatori mai ingabbiati, liberi di esprimersi. A conferma che Bagnoli, in quella fase storica, fu il più lesto a capire i vantaggi di un ibrido tra zona e uomo, affrancandosi dalla dittatura degli schemi. Che provava, in settimana, solo sui calci piazzati. In fondo, sintetizzò una volta, potrei definirmi un “difensivista offensivo”. E in effetti la sua squadra, osservò qualcuno con tocco poetico, “sapeva coprirsi come un guanto e scagliarsi come una freccia”.
La verità è che il Verona giocava per divertirsi. Con un senso di libertà che tutto scandiva. Pensava in verticale, ribaltava rapidamente l'azione. Nessuno correva a vuoto, nessuno era fuori ruolo. Tutti, o quasi, lucidavano le proprie attitudini offensive. Briegel, da terzino a mediano, altra intuizione di Bagnoli, segnò nove gol in quella stagione, solo due in meno del cannoniere Galderisi. Un classico delle squadre di Bagnoli, le tante firme alla voce segnature. Lui stesso confessò che prima di scegliere un calciatore, si affidava all'Almanacco Panini per verificarne la prolificità. Occorre ambire all'asciuttezza, Bagnoli lo ribadiva di continuo, senza machiavellismi, astruserie, costruzioni dal basso. E quando i media investigavano sul suo alfabeto segreto, lui ne frustrava subito gli sforzi: “La mia squadra gioca un calcio tradizionale – spiegava – che facciamo pressing lo leggo sui giornali. Io in campo non l'ho mai notato”. Come dire, le innovazioni cercatele altrove, il suo furbo depistaggio. In realtà il Verona, col suo calcio basico solo in apparenza, era, per molti suoi aspetti, il vento che soffiava dal futuro. Davanti a Garella tre difensori puri, Ferroni, Fontolan e Tricella, il capitano, che sganciandosi, diventava il primo contropiedista. In mezzo la leadership, il senso tattico di Volpati, la qualità di Bruni, l'eclettismo di Sacchetti, poi la spinta di Marangon, il furore di Briegel, l'inarrestabile pendolarismo di Fanna, la visione, i lanci di Di Gennaro. E in prima linea Galderisi ed Elkjaer, mix di tecnica, opportunismo, potenza. Un'orchestra, più che una squadra, sempre pronta, nel rispetto degli equilibri, ad assecondare il virtuosismo del singolo. Un uomo e un allenatore, altro dogma di Bagnoli, non devono mai mentire. E lui, coerentemente, con i suoi mai bluffava. Sapeva tutto di loro, e quando qualcosa gli sfuggiva, un disagio, un nervo scoperto, gli era sufficiente un'occhiata per inquadrare il problema. Per poi risolverlo sussurrando parole gonfie di buon senso. Quelle figlie della sua cultura operaia. Non era un battutista. Eppure, la sua squadra volava col sorriso. Contagiando, nell'istante dell'impresa, anche lo Schopenhauer della Bovisa, del quale comunque, a dispetto del crepuscolare appellativo, non si ricordano, nei suoi spogliatoi, lezioni di pessimismo filosofico.
Certo, Bagnoli i successi li ha sempre vissuti di lato, in penombra, mai sul proscenio, trattenuto da antichi pudori. E da un realismo sempre professato. “È un mestiere, questo, che ci tira il vento”, la sua istantanea del vivere sul filo della sua categoria. Ma lo scudetto veronese piegò per un attimo anche la sua naturale ritrosia nel mostrarsi appagato a favore di telecamere. Sotto sotto ne assaporò ogni aspetto, anche i più beffardi. Anzi, soprattutto quelli. L'Osvaldo sapeva di averla fatta grossa, lasciandosi alle spalle chi poteva disporre di fuoriclasse come Maradona, Platini, Falcao, Zico, Socrates, Rummenigge, oltre a Pablito e ai suoi fratelli mondiali. Ora comandava la provincia. Trionfava la cooperativa. Esultava la classe operaia. Assieme a quel ragazzo che qualche decennio prima, in mutande, col calore che gli bruciava la testa, lavorava dentro un altoforno, ignaro che un giorno la nobiltà del calcio italiano lo avrebbe accolto, e riverito, nel proprio circolo esclusivo. Pierino “Quando Fanna arrivò a Verona una parte della critica si mostrò scettica. Pierino era stato un giovane prodigio della Primavera dell'Atalanta, nella Juve veniva indicato come il naturale successore di Causio. Ma a Torino non esplose, Trapattoni lo utilizzava poco, non ne sfruttava al meglio le qualità. L'incontro con Bagnoli fu invece decisivo, impresse una svolta alla sua carriera. Fanna divenne nel tempo il giocatore più importante dell'Hellas e rappresentò il più grande esempio dell'arte rigenerativa del suo allenatore”. Tratto da ‘Il terzino faccia il terzino’ di Giulio Giusti Da piccolo, nel paesino friulano dove è cresciuto, Pierino Fanna fingeva di essere Sandro Mazzola, il suo idolo, dribblando per ore anche l'aria. Non giocava sull'erba, ma su una strada di montagna che ogni giorno percorreva per andare e tornare da scuola. Più o meno duecento metri, sempre con la palla nei piedi, senza mai smarrirla. Un metodico, ostinato saliscendi che un giorno Pierino avrebbe benedetto, perché resta custodito lì, tra i sassi e la polvere, il segreto di quell'ala imprendibile, capace come pochi, nel suo tempo, di unire così bene corsa e resistenza. Quando ventenne arrivò alla Juve, Fanna lo chiamavano ‘Il vichingo’, per via dei capelli fluenti. Tre scudetti dopo, sforbiciate di Boniperti comprese, Pierino si prese il Verona viaggiando più veloce di tutti, anche di quella chioma in progressivo sfoltimento. Doveva essere l'erede di Causio, diventò il Garrincha di Bagnoli.
Bravo anche a gestire quella tensione che a volte in bianconero lo frenava nelle occasioni importanti. Nel Verona, solo arroganti sgommate. Bagnoli fece di lui il suo irrinunciabile uomo tattico. Che di solito partiva dalla fascia destra, cambiando di continuo posizione, con le sue fulminee incursioni a fare danni ovunque. “Vai dove ti senti” lo caricava Osvaldo, e Pierino eseguiva fidandosi del suo estro, oltre che dell'impressionante facilità di corsa. Con gli avversari ingannati da movimenti non tracciabili. Esempio, tra i tanti, delle botole invisibili congegnate dal Mago della Bovisa. Ma Fanna fu decisivo anche fuori dal campo. È sua la paternità del famoso patto dello scudetto. Accadde la notte di Capodanno dell’’84, con la squadra riunita in una baita a Cavalese. Pierino aveva colto nell'aria, e in quel gran decollo stagionale, le vibrazioni giuste. Nel suo repertorio, anche le intuizioni profetiche. E al brindisi di mezzanotte, coi calici alzati, in quell'istante solenne, pronunciò il fatidico: “Ragazzi ora o mai più”. Che nel romanzo del Verona Campione si conquisterà lo stesso peso epico delle altre tappe decisive per l'impresa. Cenerentolo “Preben Elkjaer era dinamite, tritolo e nitroglicerina, uragano, tempesta e tromba d'aria. Vederlo giocare era come aspettarsi da un momento all'altro il salto della linea sottile che divide il lecito dallo sleale, il gioco duro, ma sano, da quello cattivo. Era anche questo che ci teneva sempre sulla corda, con la speranza o la paura che accadesse qualcosa che andasse a compromettere lo spettacolo. Ma questo non accadde mai. Preben non oltrepassò mai quel limite”. Tratto da ‘La leggenda di Preben’ di Giovanni Gambini
14 ottobre '84. Il Verona batte la Juve 2-0, con le firme di Galderisi ed Elkjaer, tra i successi simbolo della stagione scudettata. Ma è anche il giorno in cui il danese viene ribattezzato ‘Cenerentolo’, in stridente contrasto con la stazza da spaccalegna e con la furia incendiaria del suo calcio d'assalto, privo di pause, incertezze, inutili ghirigori. Elkjaer era pura polvere da sparo. È il match del suo famoso gol realizzato senza una scarpa, toltagli involontariamente dall'allora bianconero Stefano Pioli, che allungando la gamba in tackle cercava di arginarne lo sprint da centometrista. Il resto è storia. Col piede destro denudato Elkjaer se ne va in dribbling e con la sola forza del calzettone fulmina Tacconi con un diagonale nell'angolino sinistro. Tra l'incredulità diffusa di un Bentegodi in delirio. Un gol che fece il giro del mondo, assieme agli occhi furbi del danese, anzi del “napoletano”, per dirla con Bagnoli, la cui natura schiva si specchiava, altro prodigio di quel Verona, in quella esplosiva del suo attaccante. Tra loro pochissime parole, bastava uno sguardo per dirsi tutto. E pazienza se Elkjaer negli intervalli correva a farsi una fumatina in bagno e poi si tuffava in piscina anche d'inverno e al volante schiacciava un po' troppo l'acceleratore e a volte si distraeva dietro i suoi amati cavalli. A Bagnoli di lui piaceva tutto, anche le virtù meno appariscenti, il senso del collettivo, la capacità di tenere palla. Oltre all'appartenenza alla working class, anche il danese era figlio di genitori operai. Erano giorni in cui Elkjaer galoppava nell'immaginario collettivo, sgomitando con chi, in città, sino al suo avvento, non temeva rivali sul piano della devozione popolare, del fanatismo tramandato. Gianfranco Zigoni, prima di lui, era penetrato nel cuore dei veronesi, come un proiettile sparato a bruciapelo, con la sua natura naif, il piede fatato, le magie alla Sivori, la Z di Zorro sui pantaloncini, la pelliccia in panchina, le Porsche sfondate, l'adorazione per Che Guevara, soprattutto con le partite spesso vinte da solo.
Del resto “Dio Zigo pensaci tu”, era la domenicale invocazione dei suoi discepoli. Felici di respirarne l'approccio anarchico al gioco, alla vita. E la sua, Zigoni, aveva scelto di attraversarla da disobbediente ad oltranza. Cenerentolo e Zigo, stirpe speciale, quella di chi trasforma gli stadi in luna park, che fa spettacolo anche senza pallone, che anche a distanza di decenni infiamma la memoria di chi se li è goduti. Ma con un solo vincitore sul fronte autostima. Perché l'autoinvestitura a Pelè bianco è di Zigoni. E fin lassù Preben Elkjaer, il guerriero scandinavo, che al Real Madrid preferì il Verona, non ha mai osato spingersi. Garellik “Non aveva stile, e quello era il suo stile. Claudio Garella, detto Paperella e poi Garellik, faceva una cosa che nessun portiere ha mai osato: parava senza mani. Non una volta ogni tanto. Nove volte su dieci, e questo lo ha reso unico, nel suo genere, il più forte al mondo. Parava con tutto il corpo, con la pancia, con i piedi, con i gomiti, con il petto, con le ginocchia, con la faccia. Con tutto, fuorché le mani, semplicemente non gli servivano. Parava e sembrava un burattino senza fili, disarticolato, ma di una bellezza struggente”. Tratto da ‘Gamba tesa’ di Furio Zara I portieri, categoria a parte, orgogliosa della propria differenza. Esistono, è cosa nota, per accendere in chi li guarda l'epica dell'eroe solitario. Ma l'eccentricità di Garella vantava peculiarità esclusive, mai riscontrate in altri numeri uno della storia. In porta mai si è visto qualcuno, prima e dopo di lui, neppure tra i mattocchi sudamericani, i Gatti, gli Higuita, opporre le proprie forme sbilenche alle conclusioni altrui, rinunciando molto spesso agli strumenti del mestiere, le mani, appunto. Garella considerava la parata con i piedi, non l'ultima preghiera, l'artiglio di fortuna, ma una delle sue tattiche di ordinaria follia, e in quel modo sdrammatizzava il ruolo, lo spogliava del suo misticismo. E metteva il copyright sui suoi interventi. Eternando l'antiestetica, efficacissima, ‘parata alla Garella’. Non gli interessava essere etichettato, fare l'acrobata o l'esibizionista, scoprirsi eroico o maledetto. E neppure si sentiva abbandonato, là dietro, confinato nel suo recinto. Gli bastava la compagnia del suo corpo a volte sovrappeso, ma che nelle giornate ispirate qualunque minaccia respingeva. Soprattutto in quella stagione irripetibile.
Bagnoli garantiva che quando Garella decideva di non prendere gol, dalle sue parti non passavano neppure le mosche. Come quella volta all'Olimpico. 21 ottobre '84. Va in scena Roma-Verona. E ‘Paperella’ diventa ‘Garellik’, imponendo lo 0-0 a Cerezo e Falcao con una prestazione sensazionale. All'improvviso, la metamorfosi, da inaffidabile a icona. Neutralizza l'impossibile, con i piedi, certo, ma dentro lo show inserisce anche voli plastici all'incrocio. E altri numeri assortiti. “Senza di lui – ammettono i compagni – avremmo perso di goleada”. Nello stadio, dove, in maglia Lazio, si era beccato insulti e sfottò, imprime una sterzata al suo percorso, si scrolla di dosso riserve, pregiudizi, si convince di essere portiere da scudetto, con altre prodezze, in stagione, a legittimarne la certezza. E ‘Garellik’ finirà per sedurre persino Maradona. Sorta di irresistibile attrazione tra irregolari. Due stagioni dopo il portiere farà il bis all'ombra del Vesuvio. E sempre alla sua maniera, da poetico disallineato. Snobbando bilance e puristi. E usando le mani soltanto per allacciarsi gli scarpini. Libertà “I giocatori di quel Verona sorridono a Osvaldo Bagnoli con tutta la dolcezza di cui sono capaci. È il modo migliore per disporlo al buonumore, perché a quasi novant'anni non tutti i risvegli sono uguali. Vanno a trovare il loro vecchio allenatore appena possono. Telefonano alla signora Rosanna, la moglie, e si fanno dire come si è alzato, ma poi va a finire che ci vanno sempre, a prescindere dall'umore, perché sentono tutti che è giusto così. Pierino Fanna, che vive ancora in città, è il più assiduo, in luglio non scorda mai di portargli la torta di compleanno. Eh sì, perché quella del Verona Campione è una storia di uomini, e poi di calciatori, e la gratitudine è il sentimento che meglio distingue le persone”. Tratto da ‘Lo scudetto del Verona’ di Paolo Condò con Adalberto Scemma 12 maggio '85. Il Verona pareggia a Bergamo e si prende lo scudetto con un turno di anticipo.
Più che un viaggio, quasi un monologo. Con l’outsider in fuga dall'inizio, senza vertigini né forature. Bagnoli si lascia alle spalle i suoi vecchi compagni rossoneri, Radice secondo col Torino, Liedholm quinto col Milan, Trapattoni sesto con la Juve. I suoi, sul campo, lo portano in trionfo. Lo faranno anche al Bentegodi, la domenica successiva. Città e squadra gli riconoscono meriti straordinari. Come i grandi club, che proveranno, invano, nell'immediato, a strapparlo al Verona. Anche Enzo Bearzot ne magnifica il lavoro, veste d'azzurro Tricella, Fanna, Galderisi e Di Gennaro. Ma Bagnoli non fa una piega, resta sé stesso, il ‘Mago’ della porta accanto. L'operaio che girava in bicicletta col cappello da turnista. Impermeabile a eccessi, iperboli, lusinghe. E che al ritorno da Bergamo, da quella gioia liberatoria, alla moglie Rosanna che a casa gli chiede com'è andata, risponde semplicemente “tutto bene” per poi andare dritto a dormire. Da campione d'Italia. Ma senza quasi farci caso. “Se Bagnoli ha lasciato un messaggio – ha scritto Gianni Mura – è un messaggio di libertà. La libertà che nasce dalla conoscenza. E dalla rettitudine. La libertà di un allenatore che si faceva stimare, voler bene, perché aveva una faccia e una parola sola”. Ci sono avventure che andrebbero rievocate più spesso, a prescindere dalle ricorrenze. Vicende di uomini forti come le loro passioni. E di conquiste che nulla hanno di casuale. Come lo scudetto del Verona, che dopo quarant'anni continua a profumare di coraggio e di fantasia.
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