
Rai Tre festeggia il suo trentesimo compleanno: i mille volti della terza rete
News inserita da: Giorgio Scorsone (Giosco)
Fonte: Digital-Sat
Qui di seguito alcuni estratti tra le tante testimonianze di personaggi illustri:
INTERVISTA A BIAGIO AGNES
Il direttore del primo Tg che faceva informazione nazionale e dava anche spazio alle realtà regionali è stato Biagio Agnes.
Ci fu una delibera del CDA nel 1979 con la quale mi nominarono direttore di questo nascente telegiornale.
Come era confezionato?
Innanzi tutto fu una scommessa con noi e con il pubblico. Ad ogni edizione dovevamo realizzare 10 minuti di notizie nazionali e internazionali e 20 minuti di informazione regionale con 21 edizioni legate alle diverse realtà locali e con altrettanti caporedattori con i quali ci confrontavamo continuamente durante l’arco della giornata.
Lei aveva capito di essere in un certo senso un innovatore?
Sostanzialmente lo ero. Non esisteva il Tg regionale, all’epoca c’era l’informazione regionale soltanto per radio attraverso il Gazzettino. In quel modo avevo dato sicuramente una svolta alla diffusione dell’informazione televisiva regionale, ottenendo anche un grande riscontro di pubblico.
A proposito della scommessa con il pubblico quale è stata la carta vincente?
Fin dai primi giorni già in fase di organizzazione del lavoro nacquero due scuole di pensiero molto forti. Da una parte c’erano quelli che volevano realizzare un Tg totalmente regionale, dall’altra, dove mi ero schierato io, quelli che volevano confezionare un telegiornale con notizie nazionali ed estere, con largo spazio poi, alle realtà regionali. E il pubblico rispose subito bene perché sostanzialmente in un solo canale aveva tutta l’informazione.
Angelo Guglielmi, dal 1987 al 1994 lei è stato direttore di Raitre, “traghettandola” dalla vocazione regionale a quella “nazionale”. Che cosa è stata, per lei, quella Raitre?
Direi una rete che sanciva la fine della Tv pedagogica e dava inizio alla Neo Tv: una televisione non più al servizio di altre discipline, ma disciplina essa stessa con un proprio linguaggio specifico. E questo faceva sì che fosse una rete ‘inquieta’ che sperimentava, che creava piccoli e grandi format. E non a caso molti dei programmi e dei personaggi di quella rete non sono ancora andati persi. Basta pensare a Lerner, Ferrara, Fazio, Santoro, Dandini... .
Ma lei aveva la percezione di innovare?
Non so, io volevo fare qualcosa di diverso e all’inizio mi ero dato una sola regola: non adoperare nessuno dei personaggi e dei ‘volti’ di Raiuno e di Raidue e cercare nuove facce, nuove idee, nuove trasmissioni. Questa era l’unica preoccupazione, anche perché imitare Raiuno e Raidue non ci avrebbe dato alcun vantaggio, anzi... .
E come scelse i suoi collaboratori per questo progetto?
Mi rivolsi a tutte quelle professionalità rimaste un po’ in disparte perché ritenute, in una logica politica, di parte. Ed erano personaggi come Balassone, come Tantillo, Voglino, Beghin solo per citarne alcuni. Persone che non erano ancora ‘consumate’ dalla televisione. Scelte fatte sulle capacità personali, sui loro contenuti. Pensi solo alla scommessa vinta di avere un personaggio come Enrico Ghezzi ai palinsesti. Anche questo era innovare e sperimentare..
Ha accennato alla politica. Quanto è stato forte il rapporto con la politica a Raitre?
Raitre era del tutto indipendente. E’ vero, la direzione di rete è stata frutto di un accordo tra Dc, Psi e Pci, perché anche il Pci avesse una sua parte, anche se la minore. E ricordo che a indicare il mio nome fu Walter Veltroni. Ma, appena arrivata la nomina, il Pci sparì. Non tanto per scelta virtuosa, ma perché evidentemente ritenevano di avere più vantaggi dal fatto che fosse percepita come una rete innovativa, nuova. E libera.
Ha qualche rimpianto?
No, in fondo ho fatto tutto quello che volevo. Forse, l’unico rammarico è l’imposizione, sotto il Cda dei “Professori”, di lasciare spazio in palinsesto alla terza edizione dei Telegiornali Regionali che spezzava la nostra serata e spostava troppo tardi “Milano, Italia” di Gad Lerner. Ma su questo il Direttore Generale – Locatelli – fu irremovibile.
LUCIA ANNUNZIATA
La mia prima direzione - arrivata molto presto nella mia vita - e svoltasi nel segno delle polemiche e delle discussioni, nello stile che era allora normale in una Rai che ancora aveva il bene e la voglia di polemizzare.
Il Tg3 era una vera e propria istituzione, il simbolo di una innovazione profonda del linguaggio televisivo, il segno di una conquista. In termini più concreti, questi concetti avevano un nome: Sandro Curzi. Solo una impavida, una arrogante o una incosciente poteva desiderare di prendere il testimone del padre fondatore. Ma io ero tutte e tre le cose. E il governo Prodi, che nel 1996 andò a Palazzo Chigi portandovi per la prima volta dal dopoguerra una maggioranza di centro sinistra condivideva questi difetti – o, dovrei dire, io condividevo i suoi.
La Rai che nasce da quella esperienza del 1996 è un servizio pubblico che si impone di sognare una soluzione palingentica. Il Presidente Enzo Siciliano era un mite determinato, il Direttore generale (Franco Iseppi) governava con guanto di ferro in mano di velluto. Quella Rai voleva cambiare qualcosa, cosi come voleva cambiare l’Italia. Voleva guardarsi intorno e aprire le finestre. Al Tg3 fino ad allora Telekabul venne assegnato il compito (ho ancora la lettera che definisce il mio incarico) di rappresentare da quel momento in poi i ceti della modernità, di internet, la chatting class mondiale divenuta in quel decennio il traino della new economy.
Difficile conversione. Del resto, le direzioni in Rai, indipendentemente dalla loro durata in termini di tempo, sono sempre transienti - nel senso che i prodotti Rai hanno tutti una forte identità molto difficile da scalfire. Ci provai, comunque. Quel che abbia ottenuto o meno non sta a me dirlo.
ANTONIO DI BELLA
“Buonasera da Roma sono le ventidue e trenta, buonasera da New York sono le sedici e trenta”.
E’ stato il Tg3 Roma-New York, la grande intuizione di Curzi e Guglielmi il mio battesimo del fuoco al Tg3. Giovane inviato in appoggio al veterano Lucio Manisco, per la prima guerra del Golfo (1990), mi sono trovato a condurre, e a realizzare, un tg nuovo assieme a un gruppo di giovani come me che venivano a turno a New York per realizzare una delle molte innovazioni editoriali di quegli anni. Quello spirito, quell’entusiasmo ai limiti dell’incoscienza, è ciò che mi piace ricordare dei miei anni al Tg3. Lo avrei ritrovato tornato anni dopo a Roma, prima come condirettore, poi come conduttore di Primo Piano e infine nei miei otto anni da direttore.
Perché dagli anni della sua fondazione il Tg3 è cambiato, così come è cambiato il paese, passando attraverso molte fasi. Come dimenticare la “fusione “ Tg3-TgR (direttore Nuccio Fava), un’esperienza particolarmente cara a chi, come me, è cresciuto professionalmente alla Rai di Milano. Un travaso di esperienze e competenze centro-periferia che ha permesso tra l’altro di lanciare decine di eccellenti professionisti a livello nazionale.
Ma attraverso tutti questi anni questo tg conserva, a mio parere, lo spirito del suo fondatore, Sandro Curzi. Il gusto per la sfida, l’innovazione, l’idiosincrasia per i rituali, i luoghi comuni, le banalizzazioni. Più facile a dirsi che a farsi ma in tanti anni di lavoro ho avuto il piacere di vedere, nei molti giovani che ho avuto il privilegio di far entrare, lo stesso spirito dei “padri fondatori”.
Potrei citare mille episodi ma ne riferisco uno su tutti: la diretta di Giovanna Botteri per il primo bombardamento americano su Bagdad. Esclusiva mondiale, prima di Cnn, BBC, di tutti i circuiti internazionali. Asciutta, forte, come tante altre volte è capitato al Tg3.
Non sono mancati gli errori certo, le manchevolezze. Ma lo spirito è sempre lo stesso e rivive nella nuova direzione, che sono orgoglioso sia andata proprio a una di quelle persone che faceva la spola fa Roma e New York, Bianca Berlinguer. Ogni direttore contribuisce a lasciare la sua impronta, ma al Tg3 non si può prescindere dalla storia di una testata che, piaccia o meno, ha fatto la storia dell’informazione televisiva in Italia.
PAOLO RUFFINI
Ci sono cose che se cerchi di definirle non trovi le parole. Togli loro lo spessore. Le scolori. Le riduci ad una sola dimensione. Piatta.
Rai3 è così. E dopo più di sette anni di direzione, provo esattamente questa sensazione nel tentare di descriverla; di raccontare come era quando sono arrivato e come è ora.
Penso ai programmi che erano nati da poco, e che sono cresciuti nel frattempo, approdando stabilmente in prima serata (Report, Blu Notte); a quelli che hanno saputo rinnovare le loro radici antiche (Chi l’ha visto, Mi Manda Rai3, Un giorno in Pretura, Storie maledette); a quelli che hanno dato un sapore nuovo al racconto della storia e del mondo (Ulisse, Alle falde del Kilimangiaro, Geo & Geo). Penso a Blob, geniale controcanto della televisione, specchio impietoso di quel che siamo. Penso al garbo di Cominciamo Bene e al candore dei programmi per bambini. A Elisir e a Doc3. A c’era una volta e a Sfide. A Verba volant e a Figu. A Passepartout e a Racconti di vita. A Per un pugno di libri, a Correva l’anno e alla Grande Storia. A prima della prima, e alla Musica di Rai3. Ai Circhi e alle nostre fiction: alla Squadra, a un Posto al sole, ad Agrodolce. Ai nostri film e telefilm.
Penso agli eventi speciali che abbiamo saputo costruire e che hanno illuminato le nostre stagioni. Agli speciali di Fazio e a quelli di Floris.
Penso ai programmi che in questi sette anni sono nati, fragili, e sono divenuti forti: Ballarò, Che tempo che fa, Parla con me, Le storie, In mezz’ora, Glob, Enigma, Presa Diretta, Amore Criminale, Nati liberi.
Penso ai nomi, e ai volti, di tante persone, note e sconosciute, che tutte insieme hanno fatto e fanno, sono, questa rete; sotto i riflettori o dietro le quinte. E parafrasando Kierkegaard, sento di correre il rischio di chi vuol parlare di un viaggio, di una prospettiva, di una rotta, di un’avventura collettiva, e teme di sentir uscire dalla sua bocca invece un elenco di pietanze, il menu del giorno.
Tante cose sono state e scritte su Rai3 e sui programmi che anno dopo anno ne hanno costruito l’identità. Tante cose si potrebbero dire sulla sua unicità, sul suo nutrirsi della realtà, sulla sua libertà e sulla sua capacità di lettura critica, e quindi razionale (non onirica), della attualità e della storia, sulla qualità dei suoi programmi, sul modo in cui ha sempre saputo coniugare forma e contenuto, su come ha garantito che la televisione e il servizio pubblico non parlassero una voce sola, sul suo essere a volte scomoda, sul suo rinnovarsi senza perdersi.
C’è però una cosa che rende reale e unisce tutto questo, una cosa che fa sì che a 30 anni dalla sua nascita Rai3 sia così incredibilmente centrale nel panorama televisivo italiano. E’ una parola, un concetto, al quale un uso sbagliato ha tolto profondità, spessore, valore. E’ la parola share. Siamo abituati a usarla come un numero, un dato senza anima se non addirittura con un’anima negativa, l’anima della quantità contrapposta a quella della qualità.
Share vuol dire in realtà un’altra cosa, vuol dire condividere. Lo share di una televisione è il suo mondo condiviso. Il problema, certa, sta nel cosa si condivide. E in questo sta la forza di Rai3. Sta nell’aver accettato la sfida della tv scalandola dalla parete più ripida (quella che non cerca la quantità senza qualità, ma che non cerca nella qualità l’alibi alla mancanza di quantità). Sta nell’avere osato creare e poi condiviso, anno dopo anno, un’identità in cui specchiarsi senza vergognarsi; un punto di riferimento chiaro, onesto, leale; qualcosa che se non ci fosse la si dovrebbe inventare.
E’ questa condivisione, questo share, che tiene insieme cose così diverse tra loro; che trasforma in ricchezza la diversità; che rende forte il legame fra chi con il suo lavoro la fa vivere giorno dopo giorno e chi la guarda, mai passivamente, giorno dopo giorno. E’ questo che la tutela (e la tutelerà) da chi pensa che la sua capacità di sguardo critico sulla realtà non sia la sua forza, ma il suo punto critico, la sua debolezza. Da chi scambia la sua straordinaria unicità per una anomalia.
Buon compleanno Rai3!
BIANCA BERLINGUER
Quando sono arrivata per la prima volta al TG3, il giorno dell’attacco di terra della prima guerra del Golfo, Sandro Curzi era nella sua stanza con Corradino Mineo e Michele Santoro. Un’esperienza bellissima quei primi anni con Curzi eravamo una redazione piccola, giovane e molto motivata.
Guidati da un padre padrone, autorevole, spesso autoritario, e tuttavia capace di trasmettere la tecnica e l’amore per il mestiere. Da allora quasi tutto è cambiato, molti Direttori si sono avvicendati, ma credo di poter dire che il TG3 ancora oggi, ormai a ricordare quegli anni in redazione siamo rimasti in pochi, abbia una sua peculiarità che lo rende, e così mi auguro continui a essere, originale e imprevedibile, in altre parole, come già mi è capitato di dire: “corsaro”.
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