News inserita da: Giorgio Scorsone (Giosco)
Fonte: Il Mattino
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Televisione
giovedì, 30 ottobre 2008 | Ore: 00:00

Un libro che è un bilancio di una carriera lunga 47 anni, quasi mezzo secolo, una pausa di riflessione «fuori onda» che affronta temi come la mercificazione della notizia e il pluralismo dei mass media, la proliferazione dei reality e la spettacolarizzazione dell'informazione.
Direttore, come nasce l'idea di confrontarsi con un filosofo?
«Arriva un momento nella vita in cui ci si ferma, ci si siede su un paracarro e si riflette sul percorso fatto. Avevo voglia di lasciare una testimonianza di cinquantanni di esperienza di giornalismo e di farlo confrontandomi con un filosofo della scienza, mettendo da parte pettegolezzi e cronaca rosa, perché l'arte della comunicazione merita di essere trattata come tale e l'informazione e la comunicazione sono cose troppo serie per lasciarle in balia dei giornalisti».
Ma che cos'è, dunque, l'arte della comunicazione?
«A noi giornalisti piace pensarci come dei mediatori tra quello che accade e quello che raccontiamo, ma a volte non ci rendiamo conto della responsabilità e della difficoltà di questo ruolo e così spesso assomigliamo più all'"Urlo" di Munch che al mondo variopinto di Klimt, tanto per restare in tema di arte».
«La questione non è essere o meno faziosi. Nel giornalismo conta il coraggio della coerenza, che alla fine premia sempre. E io credo che il rispetto professionale che molti mi dimostrano mi derivi proprio dalla coerenza. Per il resto, avendo fatto 27 anni in Rai, l'inviato speciale in Africa per otto anni, e ormai venti anni in Mediaset, penso di essere testimone di una televisione diversa».
E quali sono gli scoop di cui va più orgoglioso e le notizie «bucate» più clamorose che ricorda?
«Devo confessare (sorride) che di notizie bucate non ce ne sono state, mentre gli scoop sono tanti. Penso alla scoperta della bistecca drogata, o alle anteprime della guerra del Golfo e dell'11 settembre. Ma non c'è di che vantarsi degli scoop. L'unica cosa di cui posso vantarmi è di aver amato questa professione incondizionatamente. Come dico sempre ai miei collaboratori più giovani, chi fa il giornalista non deve tener conto dell'orologio. Bisogna essere pronti in ogni momento, come quando si risponde alla chiamata in piena notte di una persona che si ama».
Detrattori e ammiratori hanno dato di Emilio Fede, come giornalista, definizioni molto diverse. Se ne dovesse scegliere una da lasciare ai posteri?
«Qualcuno che ha percorso il marciapiede della vita, un cronista, un inviato speciale. Nulla di più. Il problema è che oggi molti giornalisti considerano il lavoro un optional. Si pensa molto di più alle "corte", agli aggiornamenti professionali, agli aumenti. Il giornalismo sta cambiando in peggio. Eppure mi piace pensare a una tv pedagogica, che insegni qualcosa, e anche se ne vedo pochissima in giro, la speranza è l'ultima a morire».
Fabrizio Coscia
per "Il Mattino"
per "Il Mattino"