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Parla il ministro Gentiloni: 'Che tabù è la tivù'

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Fonte: L'Espresso

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Televisione
  venerdì, 03 agosto 2007
Imagine... Sì, proviamo a immaginare, come cantava John Lennon, un mondo in cui non ci siano barriere all'ingresso del business televisivo, perché il governo è in grado di mettere a disposizione le frequenze. Un mondo in cui limitare la bulimia di spot pubblicitari sulle reti tv non appaia come un esproprio, o in cui l'idea di allontanare dalle grinfie della politica la più grande azienda di informazione pubblica, cioè la Rai, non venga sempre boicottata...

GentiloniPaolo Gentiloni, anche perché non è Lennon, sa bene che immaginare non basta: su tutti questi fronti ha fatto il suo mestiere di ministro delle Comunicazioni e ha proposto dei disegni di legge, uno per superare la legge Gasparri, e riordinare tutto il sistema tv, e uno per riorganizzare l'azienda Rai. Peccato, però, che entrambi restino al palo.

Il governo non spinge? "Il governo spinge. Ma nelle condizioni attuali dei rapporti di forza parlamentari, quando c'è un interesse economico come questo ci sono tutte le resistenze, i rinvii, gli ostruzionismi del caso", ci mette una pezza Gentiloni. Ma poi ammette: "Anche nella nostra maggioranza non c'è una consapevolezza abbastanza forte del problema". Un modo per dire che la materia scotta, e mettere le mani nell'attuale assetto duopolistico, Mediaset più Rai, appare tabù anche a molti dell'Ulivo.

Da quando però è arrivata la sentenza di bocciatura della legge Gasparri da parte dell'Unione europea, un orologio ha cominciato a ticchettare. Il governo italiano ha tempo fino al 24 settembre per replicare, più altri due mesi di proroga, e poi l'incartamento partirà verso la Corte di giustizia, che ha potere di comminare una multa: almeno 9 milioni, con penali di 700 mila euro.

Al giorno. "L'obolo Gasparri", lo definisce Gentiloni . Dunque i tempi per fare una nuova legge, anche obtorto collo, diventano serrati.

Ma se lei fosse un operatore televisivo, ci verrebbe in Italia?
"Alle condizioni attuali, è quasi impossibile. Ma se passasse la mia proposta, le barriere all'ingresso si abbasserebbero molto, e allora, perché no? Il nostro è un buon mercato tv. E ci sono molti operatori, intendo operatori europei significativi, che hanno già bussato a questa porta per dire di essere interessati".

Cosa aspettano esattamente?
"Primo, che passi la norma che riduce la possibilità di concentrazione pubblicitaria su un solo editore. Due, che sia possibile redistribuire le frequenze. Attualmente la legge Gasparri è come un Comma 22: puoi fare televisione solo se fai già televisione. Cioè se sei uno dei soggetti che, dieci anni fa, hanno vinto le concessioni della tv analogica, o se subentri a uno di loro. Da noi non c'è mica il meccanismo normale che c'è negli altri paesi europei, con le frequenze a disposizione dello Stato o delle Authority, dove un editore può prenderle in affitto o vincerle con una gara e poi iniziare a trasmettere".

Per trovare i voti in Parlamento non potreste approfittare anche di qualche frattura politica all'interno nel centrodestra?
"Non c'è dubbio che se l'iter della discussione andasse più spedito, a un certo punto incontreremmo le contraddizioni interne del centrodestra, e magari la disponibilità di chi in quella compagine vuole distinguersi. Il problema è che anche nella maggioranza non tutti ritengono il pluralismo televisivo abbastanza importante".

Stesse frustrazioni sulla sua riforma della Rai: una fondazione che controlla una holding, che controlla a sua volta delle società operative?
"Sono più ottimista. Oggi la Rai ha un consiglio d'amministrazione che si riunisce almeno una volta alla settimana, che spesso si occupa dei programmi che vengono mandati in onda, ha un capo azienda con un limite di spesa di 2 milioni e mezzo - in Telecom ce l'ha il numero 25 della gerarchia - e la conseguenza è che sulle grandi scelte strategiche il vertice non decide. Se arriviamo tra un anno a rieleggere il consiglio Rai con gli stessi meccanismi della Gasparri, possiamo dire addio all'azienda. L'occasione per rendere la Rai più autonoma dalla politica va colta ora. Subito".

 L'idea di vendere almeno una rete è defunta?
"Nel patto programmatico di questo governo la privatizzazione non c'è. Non che non se ne sia discusso, altroché. Ma è andata così: ne ho preso atto, e buonanotte. Resta il controllo pubblico, ma non è poco importante distinguere ciò che è finanziato dal canone e dalla pubblicità".

Cosa spera di ottenere con la separazione societaria sotto la fondazione?
"Intanto, di uscire dall'ibrido attuale. Oggi alcune reti assomigliano troppo alla tv commerciale: d'altra parte, è l'unica tv pubblica al mondo con metà delle risorse che provengono dalla pubblicità. Dividere il business in diverse società servirà a qualificare chiaramente cosa vuol dire televisione pubblica, che deve essere meno dipendente dalla pubblicità. Con il contratto di servizio abbiamo introdotto finalmente un criterio di misurazione della qualità. Per questo dall'anno prossimo ci sarà un 'indice di valore pubblico' che verrà pubblicizzato tutti i giorni insieme all'indice di ascolto Auditel".
Estratto da un articolo di
Paola Pilati

per "L'Espresso"

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