Il giorno dopo c’è chi grida alla tv di qualità, alla Cultura con la “c” maiuscola finalmente riapparsa sul piccolo schermo. C’è chi teorizza su un pubblico assetato di buone cose che non molla l’osso quando questo gli viene finalmente gettato. Probabilmente hanno ragione, anche se varrebbe forse la pena di domandarsi se quel pubblico affamato di qualità non sia lo stesso che, alla stessa ora sullo stesso canale, attende con ansia di aprire i pacchi di Insinna.
Per interrompere il flusso di complimenti ed entusiasmo che ha investito ieri Benigni e la sua performance, abbiamo chiesto a Edoardo Sanguineti, che di Dante - tra le altre cose - è studioso da diversi decenni, di guardare con noi la trasmissione e di aiutarci a commentarla con meno impeti, e con qualche dubbio in più.
Professore, facciamo una prefazione alle sue osservazioni su Benigni. Lei è contento se sulla Rai, alle 20.30, si recita Dante? Ritiene che questo debba essere il tenore dei cosiddetti programmi culturali che molti richiedono a gran voce?
Non posso che rispondere di sì, ovviamente. Quello che normalmente va in onda a quell'ora del resto non è particolarmente allettante. Il punto però è come lo si fa. Se, ad esempio, diventa una sorta di supplemento agli studi scolastici, l'interesse è moderato. Sinceramente, credo che certe cose possano star bene anche in altre fasce orarie. Il pubblico colto ama forse una serata più inoltrata, mentre non escluderei per operazioni di tipo prettamente didattico le ore pomeridiane, quando i ragazzi passano più tempo davanti alla televisione, o addirittura mattutine, quando la televisione potrebbe servire da supporto agli insegnanti.
La sua idea di programma culturale allora quale sarebbe?
Quando nacque la televisione, il desiderio della gente di cultura era quello di poter finalmente vedere una prima della Scala, o magari del San Carlo, senza doversi spostare dalla propria casa o pagare salati prezzi dei biglietti. Ma lo stesso potrebbe dirsi per l'arte, le mostre, il teatro, il cinema. Quando ero ragazzo, per recuperare parte della storia del cinema andavo in un cineclub torinese dove proiettavano le opere di Dreyer e di Pabst. Sarebbe bello che una funzione del genere la svolgesse una televisione pubblica. E invece, quell'iniziale speranza, quell'idea di utilizzare materiale culturale primigenio, venne velocemente meno. Per poi sparire completamente con l'avvento della televisione commerciale e con il predominio degli interessi pubblicitari. Eppure, la Rai, con tre reti di spazio ne avrebbe...
Passiamo alle sue prime osservazioni su Benigni, quelle più a caldo.
Per prima cosa fa davvero una certa impressione la sua energia. Non so quanto sono stato davanti alla televisione, quasi tre ore mi sembra, e senza stacchi pubblicitari, a parte la scarica di spot prima dell'inizio e alla fine. E' stato bravo ad ottenere una tale condizione di privilegio. Benigni è un funambolo della vitalità, un giocoliere ad alte prestazioni. Però si resta anche sbigottiti per lo sforzo che viene richiesto al pubblico di fronte a un'operazione del genere. Forse si sarebbe potuto dividere lo show almeno in due parti.
Non sarebbe stato difficile, la tirata di Benigni era già divisa per temi...
Sì, io la leggerei proprio come una grande torta a strati, non omogenei tra loro, in cui emergeva più che la varietà, la diseguaglianza. La prima impressione che ne traggo, dal punto di vista culturale, è che tanta emotività, tanto elogio rischiano di diventare enfatici. A tratti Benigni somigliava a quel maestro del cinematografico "Attimo fuggente" che io ho trovato uno dei film in assoluto più diseducativi...
Su questa strada critica è stato preceduto da Vittorio Sermonti, che pochi giorni fa ha bollato Benigni come "allegro divulgatore", distante dalla severità e dalla cupezza dantesche...
Allegro? Mah, io piuttosto l'ho trovato eccessivamente serioso e scarsamente popolaresco, cosa che invece avrei gradito. Molti studi hanno evidenziato come nei decenni passati Dante, ma anche Ariosto e il Tasso, venivano recitati popolarescamente dal mondo contadino. Ecco, quel recupero sì mi sarebbe piaciuto vederlo.
Ma torniamo agli strati della torta.
Il primo strato, assai sostanzioso dal punto di vista orario, era formato dal cappello politico, che io ho trovato la parte più riuscita. Benigni, infatti, ha inventato un rovesciamento semantico continuo («non è vero niente, mi hanno frainteso...si scherza») che gli ha permesso di essere il più criminoso possibile, tirando il sasso con estrema libertà. Ha messo in moto una sorta di satira autogovernata, capace di moltiplicare la propria efficacia proprio nella ritrattazione. Un colpo geniale e bellissimo. Il secondo strato invece era di carattere predicatorio, un elogio dell'italianità e della bellezza che sinceramente mi ha lasciato di stucco. A me, ma credo anche al pubblico in sala, che ha smesso improvvisamente di applaudire. Forse Benigni ha giocato sull'iperbole, ma il risultato è stato un eccesso di oratoria, un ipernazionalismo che non ha funzionato. Sembrava un predicatore delle televisioni americane. Bella invece la terza parte, quella diciamo delle note a piè di pagina al testo dantesco. Una parte da toscanaccio che recupera gli aspetti più popolareggianti della comicità di Benigni, capace di mescolare il sacro e il profano. Una levità che viene meno nell'ultimo strato, il quarto, quello della lettura vera e propria, continuamente interrotta da spiegazioni del testo a volte sinceramente discutibili. E' vero che Dante lo si può leggere in mille modi....
Al contrario di Sermonti, lei dunque sembra più possibilista sulle libere interpretazioni del sommo poeta. Eppure nella sua voce avverto un "ma". E' così?
Sì, c'è il "ma", perché io ho trovato questa lettura dantesca eccessivamente carica di pathos e di continua commozione. Se dovessi definirla, direi una lettura deamicisiana, piccolo-borghese. Un po' patetica, insomma, costruita più per commuovere che per rapire nel verso e nella sua ritmicità.
Roberta Ronconi
per "Liberazione"
(01/12/07)