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Mai prima delle dieci. Ci sono solo due persone che quando vanno in tv mettono d'accordo tutti: Fiorello e Benigni. Giovedì sera Benigni ha messo d'accordo anche noi, tranne che per una cosa. Il suo show era di fatto diviso in due parti, nella prima ci siamo goduti il solito Benigni, quello che entra in scena saltellando sulla musichetta, quello che se ci fosse stato Del Noce seduto in prima fila, e quanto gli deve essere costato non esserci stato, gli avrebbe strizzato le palle. Un Benigni travolgente che però non ci ha travolto, anzi, pur restando incantati dalle sue straordinarie doti affabulatorie e registrando qualche buona battuta, non possiamo non dire che i contenuti del pezzo satirico ci sono sembrati piuttosto scontati. Poi, liberatosi dal giogo della satira nazionalpopolare, l'uomo si è trasformato e abbiamo assistito a un miracolo. In quello che si potrebbe definire uno stato di grazia artistica, Benigni ci ha parlato di Dante e di poesia, dell'Amore e dell'unicità dell'individuo, di Dio e della realistica possibilità che non sia tutto qui. Infine, rivolgendosi ai giovani, ha detto una cosa rivoluzionaria, soprattutto per questi tempi di berlusconismo galoppante, e cioè che la bellezza della vita sta anche nella paura di non farcela, nel senso di inadeguatezza che talvolta ci coglie.
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Ma veniamo al motivo del nostro disaccordo: intorno alle 22, nell'introdurre la seconda parte, il comico si è raccomandato di non mandare a letto i bambini. Questo è il punto, perché purtroppo, caro Benigni, a quell'ora i bambini erano già a letto. Invece ci sarebbe piaciuto che nostro figlio di nove anni avesse potuto appassionarsi quanto noi a quel meraviglioso racconto che davvero pareva rivolto ai bambini. Ma forse la colpa non è di Benigni, ma della paura che si ha nel proporre cultura in tv prima delle dieci di sera. Forse con un po' di coraggio si sarebbe potuto invertire i blocchi, forse si sarebbe fatto un milione di telespettatori in meno, ma un milione di bambini in più avrebbero potuto sentir parlare di Paolo e Francesca invece che di quella "Topa della Santanché".
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Lorenzo Licalzi
per "Il Secolo XIX"
per "Il Secolo XIX"