
"Non nascondo - prosegue in tono severo - che ho ascoltato quella telefonata con fortissimo disagio, come chi è costretto a guardare controvoglia una scena di sgradevole intimità". Prima di Natale, il direttore generale Claudio Cappon rivolgerà perciò a Saccà una "contestazione disciplinare" e poi, dopo la replica dell'interessato, si valuterà se e come prendere provvedimenti. Ma, a sei mesi dalla scadenza del suo mandato, in questa intervista a Repubblica Petruccioli colloca il caso nel contesto più ampio della crisi che attraversa l'azienda e indica anche le condizioni per il rilancio del servizio pubblico in Italia.
Presidente Petruccioli, dopo le rivelazioni sul "patto segreto" fra alcuni dirigenti Rai e Mediaset, il "caso Saccà" getta benzina sul fuoco...
"Nessuno di noi è responsabile. Non abbiamo fatto noi quella telefonata né l'abbiamo registrata, pubblicata o diffusa. L'abbiamo ascoltata. E non potevamo non prendere provvedimenti".
Nei giorni scorsi, però, il ministro Paolo Gentiloni aveva già parlato di un "clima collusivo" fra Rai e Mediaset.
"Questo, semmai, c'era prima del nostro arrivo. Ora, nella gestione attuale, il clima è senz'altro diverso".
Ma, secondo lei, nel comportamento di Saccà non si può configurare anche un'ipotesi di reato?
"Non mi pronuncio, questo aspetto non mi riguarda. Per me, la questione essenziale è un'altra".
A che cosa si riferisce, presidente?
"A sei mesi dalla scadenza del mio mandato, ho davanti due obiettivi: far fronte ai problemi dell'azienda, a cominciare dal nuovo Piano industriale e dalle linee editoriali; e poi ridefinire e possibilmente rilanciare la missione servizio pubblico. Per questo, subito dopo le feste, chiederò al Consiglio di amministrazione una dichiarazione pubblica, programmatica, di due o tre pagine per riaprire il discorso di fronte all'opinione pubblica".
Molti, però, ripropongono la privatizzazione della Rai, l'abolizione del canone, la liquidazione del servizio pubblico.
"È vero. Per la prima volta, concretamente, è sul tavolo la possibilità di una fine del servizio pubblico nel nostro Paese. Ma questo discorso implica un giudizio sull'Italia, non solo sulla Rai".
E cioè? Che significa?
"In questo momento, l'Italia si scompone, si spappola. Il Paese si disarticola e così il servizio pubblico. Già adesso è feudalizzato. C'è molta "ciccia" intorno a questa azienda e anche molti appetiti: non mi sorprendo, è la logica del mercato. Ma bisogna aprire subito un confronto pubblico sul suo futuro, sul suo ruolo e sulla sua funzione, come fanno in Inghilterra ogni dieci anni per la Bbc. Altrimenti, sarà troppo tardi per salvare e rilanciare la Rai".
È un grido d'allarme, un Sos o un avvertimento?
"Più che un legato, o una disposizione testamentaria, diciamo pure una testimonianza. Quanti sono, all'interno della Rai, gli autori e i conduttori che interpretano correttamente la missione del servizio pubblico? Molti si preoccupano soprattutto di difendere il proprio spazio e così ricordano i signori della guerra cinesi che combattevano tra loro per la difesa o la conquista di un territorio".
Bé, il "caso Saccà" ne è una dimostrazione evidente e clamorosa, anche per le sue implicazioni politiche...
"Non voglio entrare nel merito di questo discorso. Ma il punto fondamentale è che nessun dipendente della Rai, qualunque sia la sua personale collocazione politica, può obbedire a chicchessia fuori dell'azienda. Non importa da dove veniamo, che cosa eravamo: importa come ciascuno di noi si comporta dal momento in cui è entrato qui".
Quando lei dice che non si può obbedire a chicchessia, intende anche Silvio Berlusconi?
"Certamente. Berlusconi è un problema e una prova: nel senso che mette tutti noi alla prova. Ma non si può reagire berlusconizzandosi. Ho tanti amici che si amputano delle migliori qualità di fronte a lui. E molti si schierano a favore o contro, come due tifoserie. Questo è un prezzo negativo per il Paese: non posso decidere com'è Berlusconi, ma posso decidere come sono e come devo comportarmi io".
Lui, intanto, continua a interferire nella vita della Rai anche dall'opposizione.
"No, sulla vita della Rai oggi Berlusconi non interferisce. La Rai non può essere sottoposta al dominio di una parte, né dell'una né dell'altra. Naturalmente, non penso che basti un accordo fra i due schieramenti: questo non garantirebbe il futuro del servizio pubblico. L'obiettivo dev'essere la piena autonomia".
Come giudica, in questa ottica, la riforma Gentiloni?
"È un passo molto rilevante nella direzione giusta. Primo, perché trasferisce la proprietà delle azioni dal governo a una Fondazione. Secondo, perché il Consiglio di amministrazione non viene più espresso da una maggioranza politica. E terzo, perché introduce la figura dell'amministratore delegato al posto del direttore generale: da qui, può partire la ristrutturazione organizzativa dell'azienda".
In che senso, presidente?
"Nel senso che oggi il direttore generale non può prendere decisioni importanti senza il consenso del Consiglio e viceversa. Sa quanti sono oggi i dirigenti che riportano, come si dice, al direttore generale? Una cinquantina, contro gli 8-10 della Bbc. Con un amministratore delegato, l'azienda si può ristrutturare e riorganizzare".
Sarà sufficiente, secondo lei?
"Se mi chiede se si potrebbe fare di più, rispondo di sì. Ma per sapere se il budino è buono e sufficiente, bisogna prima assaggiarlo. Poi, eventualmente, la riforma si può anche integrare, ma sempre nella stessa prospettiva".
Nel frattempo, voi avete approvato il Piano industriale per i prossimi tre anni, ma con il reintegro di Petroni non c'è il rischio che si blocchi tutto?
"Ne riparleremo subito dopo le feste. Ma un fatto è fuori discussione: la continuità degli atti del Consiglio. Se il consigliere Petroni vuole contestare il Piano, a norma del codice civile, deve fare un'azione giudiziaria per impugnarlo. Nulla impedisce però di discuterne e magari di correggere o aggiungere qualcosa".
Che cosa prevede, in sintesi, questo Piano?
"C'è innanzitutto una componente economica: in tre anni, risparmieremo circa 70-80 milioni di euro, in modo da arrivare al pareggio. Ma se non intervenissimo, da qui al 2010 il passivo rischierebbe di superare i 400 milioni. In ogni caso, le annuncio che già nel bilancio 2007 avremo una perdita inferiore al budget (20 milioni contro i 47 previsti), per i tre quarti forniti dalla ripresa della pubblicità nel secondo semestre dell'anno. Poi, c'è lo sviluppo del digitale terrestre e ci sono anche le linee editoriali che consentiranno all'azienda di riprendere il controllo centrale del palinsesto, anche per evitare gli sforamenti e rispettare più rigorosamente gli orari".
Presidente Petruccioli, per garantire il servizio pubblico radiotelevisivo lei pensa che sono proprio necessarie tre reti? Non si potrebbero ridurre?
"Le risponderò con sincerità. Personalmente, credo che in un futuro anche prossimo le reti generaliste possano diventare due. Ma questo dipende dalla disponibilità delle frequenze, dalla rapidità con cui si diffonderà l'alta definizione, dalle scelte sui canali specializzati. Certo, se l'obiettivo è quello di superare il duopolio e garantire un maggiore pluralismo, occorre affrontare un discorso di sistema per riequilibrare l'intero mercato televisivo. Da parte mia, auspicherei la formazione di un terzo polo consistente, con un servizio pubblico che - come in altri Paesi - può mantenere un terzo dell'audience complessiva".
Qualcuno dice che un terzo polo esiste già ed è rappresentato da Sky. Lei non teme la concorrenza della pay-tv?
"La televisione a pagamento è un problema serio per il servizio pubblico, ma sul piano della qualità più che della quantità. Noi dobbiamo evitare una frattura fra la tv dei ricchi e la tv dei poveri. E magari dei vecchi. Per la Rai, come per il servizio sanitario nazionale, è innanzitutto una questione di equità e quindi una scelta di civiltà".
Intervista di
Giovanni Valentini
per "La Repubblica"
Giovanni Valentini
per "La Repubblica"