
In un'appassionata lettera pubblicata a giugno su Repubblica, Bernardo Bertolucci si lamentava che durante la scorsa campagna elettorale non aveva mai sentito pronunciare la parola cultura. Beh, nel piano editoriale di novanta pagine elaborato recentemente dai vertici della Rai per il settore televisivo, la C-word è pubblicata sessantacinque volte. In questo documento - che dovrebbe ridisegnare la strategia editoriale del servizio pubblico - esiste anche un capitolo dedicato al "ruolo della cultura nell'innovazione del palinsesto" che contiene una nota disperatamente lucida: la TV pubblica si è ormai da tempo trasformata in un'alternativa al consumo di cultura.
La soluzione? Prima di tutto intensificare la presenza degli argomenti di natura culturale nelle tradizionali collocazioni dei contenitori e delle testate giornalistiche. Oltre, ovviamente, a spazi dedicati ex novo. E poi riproporre integralmente concerti, rappresentazioni teatrali e alcune fortunate iniziative smaccatamente culturali come le lezioni di archeologia che si sono tenute all'Auditorium di Roma.
Fin qui siamo nell'ambito della cultura riprodotta, fotocopiata per il piccolo schermo. Naturalmente è indispensabile parlare di cultura in TV perché il servizio pubblico dovrebbe garantire anche ai cinefili o agli appassionati di architettura una minuscola fetta di programmazione. E la diffusione di notizie e nozioni dal mondo delle arti è vitale anche per la buona salute dell'industria culturale che, magari controvoglia, può sicuramente trarre beneficio dal megafono televisivo. Non ultimo c'è un fattore economico, anche se limitato, visto che il patrimonio artistico italiano è uno dei pochi tesori vendibili sul mercato delle TV internazionali.
Eppure un balletto, un concerto e perfino un film, se non concepiti pensando alla televisione, si adattano a fatica dentro al piccolo schermo. Trasmettere una serata alla Scala accontenterebbe la platea dei melomani ma non riuscirebbe ad esaurire il compito culturale della TV.
E' vero che negli ultimi tempi, come notano gli autori del documento, gli spettacoli dal vivo, le grandi mostre e gli eventi culturali in genere hanno attirato quantità di pubblico incoraggianti, ma dubito che riproponendo le medesime manifestazioni sul video si possa ricreare lo stesso clima. I giovani, cioè il pubblico latitante dalle reti Rai, hanno urgenza di uscire dalle loro camerette per incontrarsi tra loro. Molti si dirigono con questo obiettivo al più vicino centro commerciale e altri si ritrovano in un teatro. Se poi devono condividere il testo di una canzone, un video o una petizione, lo fanno attraverso la Rete che è infinitamente più aggregante della televisione.
Sempre pensando ai giovani, il piano editoriale Rai afferma che questi interventi non bastano. La sfida più importante consisterà nell'ideare nuove tipologie di programmi: un vero e proprio "genere". Che la cultura sia o meno un genere televisivo, come il telefilm o il talk-show, potrebbe avviare un'infinita catena di dibattiti. Per ora resta un contenuto che può inserirsi in qualsiasi categoria televisiva. E soprattutto un linguaggio, perché la sua consistenza è direttamente proporzionale al talento degli individui chiamati a realizzare un dato prodotto espressivo.
La situazione attuale, per la Rai, è tristemente avversa perché fuori sta cambiando tutto, dentro appaiono solo macerie e c'è tanto lavoro da fare per ricostruirsi una dignità. Non è facile avere una buona autostima quando il mondo che conta ti disprezza in modo così plateale. Ma la televisione deve fare uno sforzo per credere in se stessa, nel suo linguaggio e nelle sue specificità.
Riuscirà il servizio pubblico a meritare questo appellativo, prima o poi? Le notizie che ci arrivano ogni giorno non lasciano spazio a grandi speranze, ma sarebbe ingiusto dire che la Rai sta prendendo un'altra volta la direzione sbagliata. Uno dei concetti più ribaditi e convincenti del piano editoriale, per usare il suo linguaggio, è il superamento delle rendite di posizione. Vale a dire che ci sono programmi o spazi arroccati in una certa posizione del palinsesto e, di fatto, inamovibili. La rubrica Primo Piano del Tg3, per fare un esempio, è in onda tutti i santi giorni dopo il telegiornale delle 22.30, impedendo la creazione di una vera seconda serata su Raitre. Così si perde l'occasione di sperimentare idee innovative o troppo rischiose per la prima serata. E questo è un vero peccato: la scommessa con la cultura si gioca soprattutto sul campo della sperimentazione. E si vince con due ingredienti rari ma già presenti in natura: un po' di rigore e moltissimo talento.
Angelica Grizi,
autrice televisiva,
per "Il Riformista"
(24/12/07)
autrice televisiva,
per "Il Riformista"
(24/12/07)