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La scomparsa di Benazir è solo per chi conosce l'inglese

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Fonte: Il Riformista

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Televisione
  lunedì, 31 dicembre 2007
 00:00

Giovedì scorso, l'assassinio di Benazir Bhutto ha tenuto incollati ai teleschermi tutti gli italiani che hanno a cuore le sorti del mondo. O, più precisamente, tutti quelli che hanno a cuore le sorti del mondo e che, in più, hanno il privilegio di capire l'inglese.
 
Mentre sulla Cnn, su Fox News e sulla Bbc sfilavano incalzanti le immagini raccapriccianti dei fatti di Rawalpindi, infatti, i sedicenti canali all-news nostrani dormivano il sonno placido dei   pontieri post-natalizi. Mentre Sky Tg 24 liquidava l'assassinio in tre minuti tre, per poi passare alla celebrazione del memorabile discorso di Prodi sul paese che si è rimesso in marcia, e a una pur pregevole intervista (registrata) a Giampaolo Pansa sull'anno che verrà, Rai News mandava addirittura in onda una replica consacrata a "indagini e sfide di una patologa forense''.
 
Solo in tarda serata, quando era ormai entrata in campo anche la televisione generalista  (con "Primo Piano" di Rai 3), il canale all news della tv di Stato sì risvegliava dal coma, interrompendo la sequenza ininterrotta delle repliche per tentare di dare conto di ciò che stava accadendo in Pakistan. E anche in questo caso lo faceva limitandosi a mandare in onda i servizi già trasmessi dai canali stranieri accompagnati da un approssimativo abbozzo di traduzione.
 
Nulla di nuovo, si dirà: il problema è la mancanza di mezzi. Fatto sta che il mondo dell'informazione si sta polarizzando in misura crescente. Da una parte ci sono i pochissimi soggetti (agenzie di stampa, canali allnews, grandi giornali) che hanno ancora i mezzi (e la voglia) di andarsi a cercare le informazioni di prima mano. Il che implica un investimento considerevole: le notizie costano; ci sono corrispondenti da mantenere, biglietti aerei da pagare, inchieste approfondite da finanziare, eccetera. Dall'altra parte ci sono tutti gli altri mezzi di informazione che si accontentano di appoggiarsi sull'infrastruttura degli altri e di accrescere il rumore di fondo con commenti e infiorettamenti più o meno appropriati.
 
Il problema è che, da noi, tutti, ma proprio tutti hanno scelto di adottare la seconda soluzione. Ecco perché, sempre più spesso, i giornali italiani sembrano la fotocopia dell'Herald Tribune o di Le Monde del giorno prima. Da una parte la notizia, dall'altra il commento. La precisione, la tempestività e la novità costano care. La veemenza, le lacrime e l'indignazione, invece, pochissimo. Il problema, però, è che rinunciare a competere sul mercato delle notizie per specializzarsi nel commento a oltranza significa rassegnarsi a essere sempre e solo spettatori.
 
Se, nel corso dell'ultimo biennio, Al Jazeera ha dato il via a una (interessante) versione inglese e i francesi hanno lanciato il loro canale France 24, non è per caso. È perché il Qatar e la Francia ritengono che valga la pena di investire per promuovere un proprio punto di vista sulle cose del mondo. Se il New York Times e la Frankfurter Allgemeine Zeitung propongono ogni giorno inchieste e notizie originali, anziché scopiazzature d'agenzia e voci di corridoio, è perché hanno ancora voglia di pesare sul dibattito pubblico, e non solo di mandare segnali in codice ai millecinquecento lettori dei quali parlava, a suo tempo, il mai abbastanza compianto Enzo Forcella.
 
Giuliano Da Empoli
per "Il Riformista"

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