Il mondo della tv italiana sta bene o sta male? Quale lo stato
dell'arte di questa galassia che, prima o poi, sarà chiamata ad affrontare il
nodo della riforma Gentiloni, sia per quanto già presente nel disegno di legge,
sia per quanto potrebbe essere aggiunto in sede parlamentare? Il tutto senza
dimenticare che in qualche modo è partito il treno verso la totale
digitalizzazione con obiettivo, fissato per il 2012, di dare l'addio alla
vecchia tv analogica. Il che non vorrà dire automaticamente sparizione della
vecchia tv generalista, ma comunque qualche trasformazione finirà per portarla.
A fronte di questo percorso che si annuncia come uno sconvolgimento (ammesso e
non concesso che sarà così, visto che si nutrono cospicui dubbi sul fatto che la
legge Gentiloni possa passare dalle parole ai fatti), vediamo di riassumere come
si presentano i tre poli principali su cui si articola la televisione italiana.
E vediamo anche che prospettive ci sono intorno al sempre mancato terzo polo,
vale a dire La7, legate a quanto succederà alla capogruppo Telecom Italia dopo
la recente operazione con Telefonica.
RAI La particolare situazione politica in cui versa l'azienda pubblica,
con una maggioranza del consiglio di amministrazione che non corrisponde alla
maggioranza politica che sta governando il Paese, ha creato una situazione di
quasi totale stallo. Adesso alcuni consiglieri del centrosinistra, a cominciare
da Sandro Curzi, hanno lanciato una sorta di ultimatum al direttore generale
Claudio Cappon affinché proceda alle nomine bloccate da mesi. Ma già una volta
il dg è stato stoppato dalla maggioranza di centrodestra su questo fronte.
Adesso che succederà ? Il blocco potrebbe ripetersi a meno che il ministro
Padoa Schioppa non si decida a sostituire il rappresentante del Tesoro nel Cda.
Siccome questa possibilità non sembra così prossima, potrebbe succedere che si
facciano solo le nomine strettamente necessarie (quelle delle consociate, ad
esempio, scadute da mesi o da anni) e il resto rimanga congelato fino alla
scadenza naturale del consiglio, vale a dire quasi un anno ancora. Lo stallo
politico si riflette sullo stallo industriale: non ci sono vere strategie e si
va avanti con la ripetizione di vecchi schemi oppure tentando strade che sono
già bruciate in partenza. Il caso recente di “Colpo di genio” è emblematico:
chiusa dopo due puntate una trasmissione che dove segnare l'ingresso di Simona
Ventura nell'ammiraglia dell'azienda.
La Rai, a differenza del passato, avendo appaltato quasi tutto all'esterno
(si parla del 76% delle produzioni), ha avvilito le proprie professionalità al
punto che non si tenta più nemmeno di raddrizzare in corso d'opera i programmi
che non vanno. Sul fronte degli investimenti, poi, siamo a terra e il digitale
terrestre langue... sottoterra. Il discorso sul servizio pubblico, poi, finisce
per condurre alla sconsolante conclusione che in pratica la Rai, rincorrendo nel
suo modello la concorrente Mediaset, si è commercializzata fino a perdere la sua
natura. Prendiamo il caso dell'approfondimento giornalistico: l'unico
servizio pubblico (a parte i telegiornali) sembra essere svolto da Rai Tre, che
paradossalmente è anche la rete più politicizzata, per cui il suo non può che
essere un servizio pubblico a metà . Per il resto abbiamo Santoro su Rai Due, che
ormai appare sempre più un luogo dove se la suonano e se la cantano e dove si
sono persi lo spirito e l'anima delle trasmissioni del passato, e soprattutto
Porta a porta su Rai Uno. Ma ci vuole coraggio, ormai, a definire servizio
pubblico il programma di Vespa, che sta perdendo via via la sua natura migliore
e si è spettacolarizzato per inseguire gli ascolti. Insomma, quando il Bruno
nazionale tocca temi seri, lo guardano ormai in pochi, quando va sulla Franzoni
e sul Gossip, allora lo share si impenna. E questo è servizio pubblico?
MEDIASET Il problema della maggiore azienda televisiva privata del Paese
è essenzialmente aziendale. Lo ha indirettamente confermato la recente uscita
del coordinamento del Cdr delle testate che si è lamentato del taglio dei costi,
con conseguente limitazione delle risorse umane e tecniche per seguire eventi
che in altri tempi sarebbero stati coperti in proprio. E' da tempo che dalle
parti di Cologno stanno massimizzando i risparmi per poter ottenere conti
brillanti e soprattutto dividendi cospicui. D'altra parte non ci sarebbe
stata altra possibilità per distribuire, nel 2006, oltre 500 milioni di utili a
fronte di introiti pubblicitari che, nell'ultimo trimestre, sono crollati del
10%. Sono anni che alcuni analisti vanno scrivendo come Mediaset stia spremendo
il massimo da prodotti televisivi ormai vecchi e stravecchi, anche se bisogna
dare atto al ruolo di sperimentazione affidato a Italia 1.
Sul fronte del digitale terrestre, poi, come ha osservato una recente analisi di
Deutche Bank, il pay per view non ha dato i risultati sperati soprattutto in
fatto di ricariche vendute e il passaggio all'offerta in abbonamento
richiede forti investimenti per spingere gli spettatori a comprare i pacchetti,
magari sottraendoli a Sky. Ma perché un'azienda dovrebbe investire centinaia di
milioni di euro col rischio di sottrarre pubblico ai propri canali generalisti
intorno ai quali, per qualche anno ancora, si gioca la partita pubblicitaria che
conta? A Berlusconi mancherebbe l'alimentazione per investire in maniera pesante
in settori come l'energia e le telecomunicazioni, segmenti di maggiore
prospettiva, soprattutto se a Mediaset venissero in parte tagliate le ali con la
Gentiloni.
SKY Il terzo polo di Rupert Murdoch si lecca le ferite per aver accettato
di entrare nelle rilevazioni dell'Auditel. Da Sky hanno battagliato a lungo per
cambiare un po' le cose, hanno avuto una mano dall'AgCom, ma a risultati resi
pubblici è stato gioco forza mostrare una certa delusione per i cosiddetti
nanoshare. Stai a spiegare che ciò che contano sono i contatti unici, che il
sistema di rilevazione non è ancora quello adeguato e via discorrendo. E infatti
dal quartier generale di via Salaria è partito un nuovo attacco all'Auditel,
alla composizione del suo consiglio di amministrazione e ai suoi sistemi
tecnici. Ciò che conta, ripetono a Sky, è il numero degli abbonamenti, che ha
superato di poco i 4 milioni. Certamente un importante traguardo se rapportato
alla nascita abbastanza recente della piattaforma. Ma adesso la loro crescita
pare si sia parecchio rallentata. Che ci sia un problema di prodotto da parte di
Sky?
Anche per l'Italia Murdoch ha scelto di applicare il modello internazionale,
cioè quello impostato sull'offerta di moltissimi canali, ben 80, il che
porta il pubblico a disperdersi. A Sky, però, interessa il dato complessivo, che
è pari a uno share medio dell'8%. Ma la sua è un televisione che potremmo
definire di archivio o magazzino, nel senso che i canali vengono alimentati
essenzialmente con quanto c'è nel magazzino della capogruppo: investire in
fiction e produzioni locali, a parte l'informazione, richiederebbe troppi
investimenti per ascolti che sarebbero comunque molto bassi e quindi non
risulterebbe conveniente. In Italia, poi, Sky gode del vantaggio dell'essere
l'unico operatore satellitare. Ma quanto può crescere ancora in termini di
abbonamenti e come mai sembra essersi allontanato l'ingresso in Borsa?
LA7 Una televisione che sta intorno al 2,5% di share che speranze ha di
crescere fino a insidiare in qualche maniera i grandi poli?. Diciamo che nella
testa dei pensatori del governo di centrosinistra c'era e forse c'è ancora un
disegno di questo genere: sottrarre per legge una parte delle risorse
pubblicitarie di Mediaset e consegnarle alla crescita di un nuovo polo (e magari
in parte anche alla carta stampata) da realizzare appunto intorno alle reti di
Telecom Italia Media in uscita dalla capogruppo. Facile a dirsi, difficilissimo
a realizzarsi, perché in questi anni La 7 si è caratterizzata verso un
pubblico di nicchia che ama il dibattito politico e non ha compiuto nessun altro
sforzo e investimento.
L'unico esperimento è stato quello con Aldo Biscardi col suo processo, ma il
pubblico di quella trasmissione era totalmente in contraddizione rispetto al
pubblico tradizionale della rete. Così, forse anche per impossibilità di fare
investimenti, o per volontà di non farli allo scopo di mantenere la pace sociale
fra Tronchetti Provera e Berlusconi, ne è venuta fuori una televisione di
nicchia che ora è estremamente difficile da cambiare. Non sono più i tempi del
primo Berlusconi, quando la tv commerciale era tutta da costruire.
Andrea Marchi
per "L'Opinione"