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Claudio Gio: 'Io Tot Riina in tv, ora attacco la mafia'

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Fonte: Avvenire

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Claudio Gio? Riina« Ho dato il volto a Totò Riina, ma ora a teatro sto dalla parte di una vittima di mafia». Con quella faccia da ragazzino, capelli rossi tirati a gel e barba incolta, si riconosce a stento la feroce espressione del «capo dei capi», cui l?attore Claudio Gioè somigliava in modo impressionate.

Merito della poliedricità di questo 33enne inter­prete palermitano, uno dei giovani at­tori italiani più quotati.

Dopo la con­troversa fiction di Canale 5, Gioè è o­ra in scena sul palco del teatro Ambra Jovinelli di Roma (sino al 20 gennaio e poi in tournée) con
L?istruttoria - at­ti del processo in morte di Giuseppe Fava.

Scritta da Claudio Fava, figlio del giornalista Giuseppe Fava assas­sinato dalla mafia a Catania nel 1984, l?opera riporta, con la regia di Ninni Bruschetta, parte dell?immensa mo­le degli atti del processo conclusosi nel 2003 con la condanna di Nitto San­tapaola e Aldo Ercolano. In scena, ac­canto a Gioè, Donatella Finocchiaro, che ha esordito come donna di mafia
in Angela di Roberta Torre.

Senta Claudio, dopo aver interpreta­to un personaggio negativo come Rii­na, sentiva il bisogno morale di tor­nare dalla parte della legalità a teatro?

 «Il gioco del teatro è più complesso. Sono un attore, e quindi capita di in­terpretare sia ruoli di buoni sia di cat­tivi, l?importante è il contesto. Am­metto che calarsi nei panni di Riina è stato a tratti difficile. Quando, ad e­sempio, ho dovuto recitare la scena in cui i mafiosi esultano per l?ucci­sione di Falcone, è stata dura frena­re il disgusto. Ma dovevamo essere
realistici. Io, all?epoca delle stragi di Capaci e via D?Ame­lio, avevo 17 anni e abitavo ancora a Palermo. Vivevamo in un clima di guerra civile: bombe in città, autostrade divelte. Eravamo allibiti, per­ché non avevamo la consa­pevolezza adatta, il contesto non era chiaro anche perché di mafia, specie in Sicilia, non se ne parlava». 

C?è chi, come Rita Borsellino e il fratello di Impastato, dicono che ora di mafia se ne vede anche troppa in tv e solo per fini di audience. Che ne pensa dell?arrivo fra poco su Ca­nale 5 de «L?ultimo padrino» con Pla­cido nei panni di Provenzano?

 «Non nascondiamocelo: la tv ha i suoi ovvi interessi. Ma se la gente è attrat­ta dalle fiction di mafia, vuol dire che se ne è parlato troppo poco nelle se­di competenti, nelle scuole, nelle tra­smissioni giornalistiche...».


Secondo lei, qual è il modo giusto di trattare la mafia in uno spettacolo?

 «È ancora una battaglia aperta, piena luce non è stata ancora fatta, ma l?im­portante è provare a parlarne. Io ho anche interpretato un sindacalista a­mico di Peppino Impastato ne
I cen­to passi, sceneggiato da Claudio Fa­va, come pure Il capo dei capi. L?i­struttoria è proprio nata dall?esigenza di ricomporre una parte di me­moria dimenticata, di far conoscere la verità fuori dalle fredde sentenze del tribunale. Dopo 234 udienze, 260 testimoni ascoltati, 6000 pagine di verbali, ne esce fuori un affresco in­credibile: giornalisti che negano l?e­sistenza della mafia a Catania, boss che uccidono per fare un 'piacere' a qualcuno... Io dò voce a questi per­sonaggi, dal killer spietato al miglio­re amico del giornalista assassinato, per rendere onore a quelli che contro la mafia lottano ogni giorno. Io, co­me siciliano, soffro nel vedere la mia terra così massacrata».

Una curiosità: dopo il successo ne «Il capo dei capi», chissà quante propo­ste le sono arrivate per la tv.

 «Veramente sono tempi di magra: ci­nema e tv non mi hanno proposto niente. Per fortuna ho il teatro».

Angela Calvini
per "Avvenire"

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      martedì, 27 agosto 2013
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      mercoledì, 27 aprile 2011